Premessa: questo non è il solito piagnisteo di giornalisti che si sentono intoccabili e appena si indaga su di loro strillano alla libertà di stampa violata. Noi abbiamo il diritto-dovere di rivelare notizie di pubblico interesse, anche segrete, e i magistrati hanno quello di indagare per scoprire chi ce le ha date. L’importante è che le indagini rispettino i Codici, la Costituzione e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Noi pensiamo che ciò non sia avvenuto il 5 luglio, quando il procuratore aggiunto di Napoli Alfonso D’Avino e la sostituta Graziella Arlomede hanno spedito una ventina di finanzieri a perquisire non solo la nostra redazione e gli uffici del vicedirettore Marco Lillo (allora in vacanza in Calabria) e dell’art director Fabio Corsi, sequestrando cellulari, computer e carte e rovistando nei cassetti; ma anche nelle quattro abitazioni di Lillo e dell’anziano padre a Roma e nel Cosentino, portando via altro materiale cartaceo e informatico al vicedirettore e alla sua compagna Francesca Biagiotti, anche lei giornalista; nell’appartamento dell’ex moglie di Lillo, sequestrandole l’iPhone; nella tipografia di Grafica Veneta a Trebaseleghe (Padova), dov’è stato stampato il libro di Lillo Di padre in figlio (edito dalla nostra PaperFirst) sullo scandalo Consip. Perciò i nostri legali Caterina Malavenda e Angela De Rosa hanno fatto ricorso al Riesame di Napoli per far annullare il decreto di perquisizione e sequestro e restituire il materiale sequestrato. L’altroieri il Tribunale ci ha dato torto, con motivazioni che ci paiono risibili, ma che non stiamo qui a contestare: ci rivedremo in Cassazione, sperando di avere più fortuna e soprattutto più attenzione. Ma il ricorso è stato comunque utile. La Procura ha dovuto scoprire le carte della sua inchiesta sulle fughe di notizie (vere e presunte) verso il Fatto. Svelando altri avvincenti dettagli su questo remake della Pantera rosa e l’ispettore Clouseau.
1. Né Lillo né altri giornalisti del Fatto sono indagati: l’inchiesta per rivelazione di segreto è “contro ignoti”, cioè contro la fonte di Lillo che lui, com’è suo diritto, non ha svelato. Il che non significa che Lillo non potesse essere perquisito lo stesso: per scovare l’autore di un reato si possono intercettare persone sospettate di avere contatti con lui, anche se non sono accusate di nulla. Tipo i parenti di un sequestrato che possono ricevere telefonate dai sequestratori; o babbo Renzi, indagato a Roma per Consip, ma non a Napoli, dove però era intercettato per captare eventuali comunicazioni con i personaggi lì indagati per l’associazione a delinquere contestata ad Alfredo Romeo&C.
Quando Renzi mena scandalo perché il padre, non indagato a Napoli, era intercettato, dovrebbe sapere che è un fatto legittimo ed è accaduto (con perquisizioni e sequestri) anche ai nostri Lillo e Corsi. Con la differenza che Lillo e Corsi sono giornalisti, dunque titolari del segreto professionale. Purtroppo, al momento delle perquisizioni, Lillo non era a Roma e la Finanza non ha voluto attendere che rientrasse per poter esibire i materiali richiesti e opporre il segreto sulla fonte, ma ha preferito procedere ai sequestri ‘ndo cojo cojo.
2. La Corte europea dei diritti dell’uomo e dunque la Cassazione hanno stabilito che non si possono cercare le fonti segrete dei giornalisti intercettandoli, perquisendoli o sequestrando loro telefonini, computer e agende, salvo violare l’art. 10 della Cedu. Purtroppo è proprio ciò che ha fatto la Procura di Napoli. Che, non potendo dichiarare il suo vero obiettivo – identificare la fonte di Lillo – ha preso a pretesto la denuncia per diffamazione e violazione di segreto sporta contro il Fatto da Romeo, all’epoca detenuto a Napoli per associazione a delinquere e corruzione. Cioè: i pm di Napoli fanno arrestare Romeo accusandolo di essere un ladro, poi prendono per buona una sua denuncia contro chi l’avrebbe diffamato pubblicando i loro atti di indagine, segreti e non. Ma come può la stessa Procura scrivere in un atto che Romeo è un ladro e in un altro che il Fatto l’ha diffamato citando il primo atto? Se l’atto è autentico, non può essere diffamatorio (altrimenti la colpa sarebbe della Procura che l’ha scritto); se l’atto è falso, può essere diffamatorio, ma allora non sta in piedi la rivelazione di segreto (che segreto viola chi pubblica un atto falso?).
3. Gli atti “segreti” pubblicati da Lillo in Di padre in figlio su cui indagano i pm di Napoli sarebbero tre: le due informative del Noe su Consip, datate 9 gennaio e 3 febbraio; e una telefonata intercettata il 2 marzo tra Matteo e Tiziano Renzi. Peccato che il 18 maggio, quando il libro uscì, nessuno dei tre atti fosse più segreto. Le due informative erano state depositate alle parti l’8 e il 9 marzo dalla Procura di Roma e già pubblicate da vari giornali (curiosamente mai indagati né perquisiti) all’inizio di marzo (anche prima del Fatto, comunque due mesi e mezzo prima del libro). E la telefonata era uscita sul Fatto il 16 maggio: due giorni dopo, quando uscì il libro, non era più segreta neanch’essa. Ergo l’indagine, le perquisizioni e i sequestri si basano su un reato che non c’è. Forse i pm indagano anche sui segreti rivelati dal Fatto? No: il decreto di perquisizione parla solo del libro e sulle fughe di notizie sul Fatto già investiga la Procura di Roma (in coordinamento con Napoli), che ha iscritto – secondo noi, prendendo un granchio – il pm Henry John Woodcock e la sua amica Federica Sciarelli.
4. La Procura di Napoli non può condurre indagini sospettando che vi sia coinvolto un suo pm: per legge, di questi casi deve occuparsi un’altra Procura (che infatti, per Napoli, è Roma). Si dirà: Napoli non sospetta di Woodcock. Magari! I pm D’Avino e Arlomede ordinano alla Gdf di sequestrare il cellulare dell’ex moglie di Lillo perché dai tabulati risulta in contatto con un’utenza Rai che potrebbe essere in uso alla Sciarelli (in realtà è di una funzionaria Rai, amica di famiglia). E qui, siccome la Sciarelli entra nell’inchiesta solo perché legata a Woodcock, casca l’asino: non solo i pm romani, ma pure i napoletani dimostrano di sospettare del collega (sequestrando un cellulare sol perché si è messo in contatto con qualcuno della Rai) e indagano indirettamente su di lui.
5. Non contenta di quel che ha fatto, la Procura di Napoli voleva fare di peggio: aveva chiesto al gip Giovanna Cervo di intercettare Lillo, il nostro corrispondente da Napoli Vincenzo Iurillo e il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto. Siccome però la rivelazione di segreto non prevede intercettazioni, i pm avevano tentato di gonfiare il reato con l’aggravante del movente “patrimoniale” (l’interesse di vendere il libro). Il gip però aveva risposto picche: per l’aggravante patrimoniale, il profitto dovrebbe ricavarlo il pubblico ufficiale (ignoto) che passa la notizia, non il giornalista che la riceve. Ma che c’entrano Iurillo e Scafarto? Dai loro tabulati i pm hanno scoperto molti contatti fra Iurillo e Lillo e ne hanno astutamente dedotto che il corrispondente da Napoli sia nientemeno che “il trait d’union con la redazione romana”. Invece Scafarto ha coordinato le informative del Noe. E una donna di Castellammare di Stabia chiama Scafarto il 14 dicembre e viene chiamata da Iurillo il 22 dicembre. Senza contare un “particolare alquanto curioso” subito notato dai nostri occhi di lince: la signora “è stata coniugata fino al 2008 con un omonimo del giornalista”. Un altro Vincenzo Iurillo, cugino del nostro cronista, estraneo a tutto, ma ex marito di una conoscente di Scafarto (che il nostro Iurillo non ha mai visto né sentito prima che fosse indagato).
6. Siccome nulla sfugge agli inquirenti partenopei, a Lillo viene contestata anche un’altra fuga di notizie nel famigerato libro: i verbali di testimonianza (segretissimi) di alcuni politici interessati a vario titolo al caso Consip: Abrignani, Guerra e Lanzillotta. Woodcock viene torchiato per sapere come abbiano fatto i suoi verbali a finire nel libro. E cade dalle nuvole, non avendo mai interrogato né Abrignani, né Guerra né Lanzillotta. Che è successo? Lillo, facendo il suo mestiere, ha intervistato alcuni parlamentari e ne ha riportato le risposte nel libro. E i pm hanno scambiato le sue interviste per interrogatori. Clouseau ha colpito ancora.