Ong e scafisti, l’Italia perde di vista l’essenziale: i 150mila migranti intrappolati in Libia

13 Agosto 2017

C’è qualcosa che manca nel nostro discutere di scafisti e ong: manca l’essenziale. Mancano innanzitutto i 150mila migranti intrappolati in Libia. Se abitassero territori lontani potremmo invocare il principio di economia, per il quale non ha senso discutere di problemi che non possiamo risolvere. Ma quell’umanità in pericolo è proprio al di là dei nostri confini, insomma soffre sotto i nostri balconi, ed è perlomeno possibile che esistano soluzioni politiche o militari per garantirle una via di fuga, una zona franca, una qualche protezione internazionale. Eppure si direbbe che la questione non ci riguardi. L’informazione e la politica raccontano di quegli sventurati col tono basso e dolente che serve a mimare solidarietà umana, coinvolgimento emotivo: ma è la stessa finzione che andava in scena durante un’altra tragedia a noi vicina, la strage bosniaca, anche quella rappresentata come ineluttabile, scritta nel destino delle popolazioni jugoslave (e se ti azzardavi a suggerire che occorresse almeno mettere gli aggrediti nelle condizioni di difendersi, eri un piazzista di mitragliatrici o una spia della Nato).

A questa sorta di cecità selettiva se ne somma un’altra non meno istruttiva: come spesso le nazioni alla frutta, sembriamo incapaci di mettere a fuoco l’interesse nazionale. In Libia sono in gioco questioni per noi vitali: forniture energetiche, terrorismo, flussi migratori, la stabilità del Nord Africa. E la nostra irrilevanza sulla scena europea e mediterranea moltiplica i rischi.

L’ultima significativa iniziativa italiana di politica estera – la missione Onu in Libano, condotta al successo malgrado lo scetticismo generale – risale al 2006, governo Prodi-D’Alema. In Libia fino a ieri eravamo così insignificanti che perfino la Spagna, sia detto con il rispetto dovuto al governo Rajoy, tentava di estrometterci dal Fondo sovrano libico, uno strumento fondamentale per tentare di salvare il Paese. Poi accade questo: il governo prende atto che la stabilizzazione della Libia è fondamentale per neutralizzare scafisti e barconi. Di conseguenza vara una politica sull’immigrazione assai controversa (e secondo me sbagliata) che però genera una politica estera finalmente propositiva. Quest’ultima assume la forma di una strategia per consolidare il governo riconosciuto dall’Onu, e, sia necessità o virtù, contrasta le aspirazioni neo coloniali degli altri Stati coinvolti nella mischia libica (ne ha scritto su ilfattoquotidiano.it Stefano Feltri). Ma anche le questioni sollevate da questa iniziativa non suscitano una discussione.

È comprensibile il disinteresse della destra italiana, nella quale confluiscono due tradizioni di “vendipatria” (quelli che fino a ieri volevano diventare i “terroni” della Baviera e quelli che vendettero gli ebrei italiani a Hitler) e il sovranismo light di cui Silvio Berlusconi offrì esempio imperituro nell’imminenza dell’attacco alla Libia (scena muta in Consiglio atlantico quando Sarkozy annunciò che i bombardieri francesi erano entrati nello spazio aereo italiano per dare inizio a una guerra che Roma non voleva). Comprensibile, data la qualità del personale politico, anche l’incapacità del M5S di produrre altro che gli schiamazzi suggeriti dai sondaggi. Meno comprensibile è l’atteggiamento di quel qualificato segmento di opinione pubblica che si tratteggia vuoi come la coscienza morale del Paese, vuoi come l’espressione della classe dirigente “responsabile”. Non mi pare ingeneroso sintetizzarlo così: scarsa attenzione per la politica italiana in Libia, scarsissima per la sorte dei 150mila migranti persi nel labirinto libico.

All’origine di queste disattenzioni vi è sicuramente una difficoltà di comprensione. La situazione in Libia disorienta, è fuori dallo schema “noi e i generali filo-occidentali contro gli islamici” con il quale siamo abituati a leggere le cose arabe. Quanto ai migranti, risultano alieni a una maggioranza trasversale; e l’Italia “avvertita” tende a percepirli come un’indiretta minaccia alla democrazia, in quanto i loro arrivi spingerebbero l’elettorato, dunque il governo del Paese, verso una destra impresentabile. Risultato: fatte salve numerose eccezioni (da Massimo Cacciari ad Andrea Ranieri, dall’Avvenire al manifesto) la sorte di quei 150mila esseri umani è stata rimossa dal dibattito pubblico, invece occupato dalle astiosità contro l’umanitarismo. Questione importante, immediatamente traducibile in termini a noi familiari, però collaterale.

Come evitare di perdere definitivamente di vista l’essenziale? Aiuterà tenere a mente che anche l’Italia “avvertita” indulge a tecniche diversive largamente in uso nella retorica politica: lo spostamento di senso, per la quale il centro della storia perde rilevanza e passa in secondo piano; l’esibizione morale, dove affabulazioni e deprecazioni tutte interne allo scontro tra partiti finiscono per sostituire il ragionare di problemi e di soluzioni; e il rifiuto di quelle soluzioni che, anche se efficaci, non corrispondano ai canoni dell’ideologia, alle preferenze di lettori ed elettori, alle convenienze dei partiti di riferimento. Detto altrimenti: l’Italia “morale” e “responsabile” spesso lo è meno di quanto si proclami.

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