La storia della Grande Recessione e della sua lenta risoluzione assegna un ruolo da protagonista alle banche centrali, soprattutto alla Federal Reserve americana. Dal crollo delle dotcom la Fed (basandosi sull’esperienza dopo il lunedì nero del 1987) aveva preso l’abitudine di sostenere Wall Street abbattendo i tassi di interesse in modo che un’ondata di liquidità si riversasse sulle azioni. Era la cosiddetta Greenspan put dal nome dell’allora Presidente della Fed.
Per gonfiare i rendimenti e soddisfare la domanda di fondi pensione e assicurazioni vennero studiati la congerie di titoli denominati variamente Mortgage Backed Securities (MBS), Asset Backed Security (ABS) o Collateralized Debt Obligation (CDO). Erano in sostanza obbligazioni garantite da mutui concessi a famiglie con profilo di rischio sempre più alto, cui le agenzie di rating conferivano la tripla A. Alan Greenspan nelle audizioni al Congresso a chi paventava pericoli di instabilità, replicava fideisticamente che il sistema finanziario aveva parcellizzato ed allocato i rischi in modo efficiente.
Quando nell’aprile del 2006 i prezzi degli immobili Usa invertirono il senso di marcia iniziò il redde rationem, prima con la nazionalizzazione di Northern Rock in Gran Bretagna a febbraio 2008, poi con il fallimento di Bear Stearns a marzo e infine con il collasso di Lehman Brothers il 15 settembre. Il mercato monetario Usa, centro nevralgico dell’architettura finanziaria globale subì l’equivalente di un collasso cardiaco e i mercati del pianeta si bloccarono. La Greenspan put era stata fatale.
A quel punto fu chiaro che il disastro aveva assunto proporzioni epocali e richiedeva misure eccezionali. Nell’epicentro della crisi, gli Usa, un intervento senza precedenti delle autorità scongiurò la devastazione totale: il 2 ottobre 2008 Bush firmò il Troubled Asset Relief Program, un provvedimento con cui il governo impegnava 700 miliardi di dollari per acquistare o garantire i titoli tossici. In Europa l’onda d’urto della crisi si propagò soprattutto nel Regno Unito, e poi in Irlanda e Islanda, i cui sistemi bancari si schiantarono. Il governo di sua Maestà Britannica imitò i cugini oltre Atlantico e acquisì le banche maggiori mentre la Banca d’Inghilterra metteva in moto misure di emergenza.
In Eurolandia le autorità di governo e la Bce erano convinte di poter scampare alle conseguenze e la reazione fu letargica. La diversa valutazione della crisi era stata evidente fin dagli albori: la Fed aveva abbassato il tasso di interesse dal 5,25% nel settembre 2007 ad un intervallo tra 0% e 0,25% nel dicembre 2008. A quel punto, visto che azzerare i tassi a breve non produceva risultati, la Fed intraprese un sentiero mai percorso in precedenza: il Quantitative Easing cioè l’acquisto di titoli sul mercato per abbassare tutta la curva dei rendimenti. Inoltre le banche di investimento vennero trasformate in banche commerciali per metterle sotto l’ala protettiva della Fed.
Infine, per quanto in un clima di profonda confusione e approssimazione le banche maggiori vennero costrette a fondersi, mentre il colosso assicurativo AIG che aveva accumulato monumentali posizioni in titoli tossici venne messo in sicurezza. Al tempo stesso la Fed iniziò a operare in modo aggressivo, attraverso una serie di stress test, per spingere le banche ad abbattere la leva finanziaria che avevano accumulato negli anni e a ripulire i bilanci. Poi vennero altri due round di QE.
Al contrario in Eurolandia a luglio 2008 la Bce E sotto la guida di Jean Claude Trichet, banchiere centrale di caratura non eccelsa, aveva addirittura alzato il tasso di interesse. Solo dopo la bancarotta di Lehman la Bce, l’8 ottobre, si unì alle altre maggiori banche centrali in una manovra coordinata di abbattimento dei tassi.
Va detto che gli Usa dal punto di vista fiscale erano in una posizione molto più solida, il che conferì alla nuova amministrazione Obama, lo spazio di manovra per estendere i benefici di disoccupazione e spendere fondi pubblici in modo oculato, dando un piccolo impulso alla ripresa.
La recessione Usa durò un anno e mezzo dal dicembre 2007 al giugno 2009. Anche in Eurolandia si registrò un simile andamento dell’economia con una timida ripresa già a metà 2009, ma proprio quando si pensava che il peggio fosse passato, le debolezze strutturali del Vecchio Continente e le precarie condizioni fiscali dei cosiddetti PIIGS (i Paesi ad alto debito, tra cui l’Italia) iniziarono a destabilizzare il quadro.
La crisi che in America era stata sostanzialmente causata dall’esplosione del debito privato, in Eurolandia sfociò in una crisi del debito pubblico con epicentro la Grecia. Sull’onda del disastro ellenico Italia e Spagna entrarono in crisi profonda mentre il Portogallo era già dovuto ricorrere alla Troika.
Il salto di qualità nella risposta di politica monetaria e nella magnitudine degli interventi avvenne con l’arrivo in Bce di Mario Draghi a fine 2011. Fu grazie alla sua leggendaria capacità di convinzione e di aggregazione del consenso che furono varati i programmi LTRO, LTRO 2, i tassi divennero negativi, la supervisione bancaria fu trasferita a Francoforte e fu lanciato il QE in salsa europea. Ma soprattutto fu scandito senza tentennamenti e con credibilità il discorso del “Whatever it takes” a luglio 2012 – la promessa di fare tutto il necessario per salvare l’euro – ad arginare le potenti forze centrifughe che rischiavano di distruggere l’unione monetaria europea.
Purtroppo la Bce non può risolvere da sola la crisi: in Europa il meccanismo di trasmissione della politica monetaria è inficiato dal sistema bancario obsoleto e ipertrofico mentre il sistema economico è strutturalmente molto più rigido che negli Usa. Per di più il perimetro dello stato è molto più ampio e molto più inefficiente che in Usa. Invece di prendere sul serio ad esempio l’America, si continua a invocare clientelismo e spreco di denaro pubblico spacciandolo per stimolo alla crescita.