Andrea Dovizioso, nato il 23 marzo 1986 a Forlimpopoli, ha sempre avuto l’unica colpa di coltivare la normalità in un microcosmo che, per sopravvivere, la normalità deve negarla in partenza. Più che un pilota, un ottimo pilota, è sempre stato percepito come un ossimoro. Anche e soprattutto da chi, peraltro, non conosce il significato della parola “ossimoro”. Nel suo caso, l’ossimoro è quello di presentarsi – correre, vivere – come “centauro razionale”. Così almeno fino a due giorni fa, quando a Spielberg ha vinto una delle gare più belle nella storia della MotoGp. Lo ha fatto con la Ducati, una moto che si vanta di essere inguidabile e che quindi in via teorica con il “razionale” Dovizioso non dovrebbe entrarci molto, e in un Paese (Austria) tornato a far parte del motomondiale nel 2016 dopo 18 stagioni di lontananza.
Marquez e la sua Honda hanno cercato di superarlo in ogni modo, come è giusto fare in uno sport in cui l’illecito non è solo quasi sempre lecito ma perfino auspicabile. Dovizioso si è trovato dentro una trama lontanissima da lui. A ogni curva pareva prossimo a capitolare, preferendo – forse – a quel punto un “tranquillo” secondo posto a un’eroica vittoria (o a una quasi eroica caduta). E invece Dovizioso si è mostrato pienamente spericolato. Di quella spericolatezza che non dimentica mai la testa e che non è mai spavalda.
Ognuno ha la sua natura e “il Dovi” non ha mai creduto di essere Kevin Schwantz, anche se a inizio carriera usava il suo stesso numero. Di Dovi si è spesso detto: “Bravo, però”. Gran talento, mai però abbastanza mediatico. Neanche nel suo Paese. Soprattutto nel suo Paese. Veniva sempre dopo qualcuno: dopo Rossi, dopo Biaggi, dopo Simoncelli, persino dopo Iannone. Campione del mondo in 125 nel 2004, nelle stagioni successive ha sempre fatto bene: mai primo, però. Il mondiale era sempre di qualcun altro.
Emblematiche le stagioni 2006 e 2007 in 250: sempre bravo ma sempre secondo, dietro il campione del mondo Lorenzo. Nel 2008 l’approdo in MotoGp, prima con la Honda privata e poi ufficiale. Una parentesi con Yamaha e poi Ducati. E giù ancora con le solite recensioni, resistite a torto o ragione fino a domenica: “Non rischia mai”, “È un soldatino”, “I campioni sono fatti in un altro modo”. Alle sue conferenze stampa, fino a pochi mesi fa, andavano in pochi. Errore, perché Dovi non è mai banale. Neanche quando c’è da rivolgere qualche stoccata ai colleghi, compreso Valentino Rossi, che è spesso parso la sua nemesi vincente e sfrontata.
Tra i due c’è stima vera, che è poi la parente timida dell’amicizia. I rispettivi tifosi, invece, si guerreggiano odiosamente: per gli ultrà rossisti “il Dovi è uno come tanti”, per i fan del forlivese Valentino è “l’evasore protetto dai media”. Esagerazioni, e deliri, da tifosi ciechi. Dovizioso non è mai vuoto nelle dichiarazioni: parla un buonissimo italiano, si dilunga su dettagli (non per lui) marginali, risponde a tutto e a tutti. Sempre con quell’aria da bravo ragazzo. Con quegli occhi da Rocky Balboa che non avrebbe vinto mai con Apollo Creed. Con quella ritrosia assoluta al gossip e all’orpello. Domenica “il Dovi” si è inventato un capolavoro – di tecnica, tattica, follia, raziocinio – impensabile. Non ha solo vinto: ha trovato, forse per la prima volta, una piena dimensione epica. In classifica generale è ora secondo, staccato 16 punti da Marquez e davanti a Vinales e Rossi. Mancano ancora sette gran premi: sarà durissima vincere il titolo, ma nessuno gli toglierà più tutto il talento che ha. Anche se qualcuno, alla prima sbavatura, ricomincerà a provarci.