La storia pare un clone de L’uomo che fissa le capre, paradossale film con George Clooney. Nell’Iraq invaso, militari Usa perseguono un improbabile programma di guerra paranormale: obiettivo, uccidere una capra, e poi magari un nemico, semplicemente fissandola.
Le capre del progetto scoperto dal Washington Post ed eletto campione di sprechi, in una carrellata di sciali di denaro pubblico nel conflitto afghano, sono morte tutte, ma non sono state fulminate dallo sguardo di un Robocop. Nello sforzo di vincere la ‘battaglia dei cuori e delle menti’, visto che quella sul terreno butta male, l’idea era di lanciare una produzione di cachemire afghano.
Per riuscirci, il Pentagono finanziò l’acquisto e il trasporto di 9 capre italiane di rara qualità: missione, accoppiarsi con le capre locali e migliorarne la qualità della lana. I ‘caproni’ americani non lesinarono i mezzi: allestirono una fattoria e un laboratorio per testare la qualità del prodotto, tutto a spese dei contribuenti.
Parlando alla Duke University, John Sopko, ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan, ammette che è stato un fiasco: “Le capre s’ammalarono e morirono” e il progetto fu abbandonato. Dopo avere speso 6 milioni di dollari.
Al confronto, gli italiani, con le capre in Afghanistan, ci fanno un figurone: la ong bolognese Gvc a inizio 2017 consegnò 600 capre gravide a 300 famiglie in alcuni villaggi della provincia di Herat. Capre di qualità di razza Watani, offerte a famiglie di comunità dove la presenza talebana è consistente. A selezionare i destinatari sono stati i capi-villaggio, in base alle situazioni familiari: agli allevatori scelti, è poi stata consegnata una fornitura di orzo per nutrire le capre. L’obiettivo? Rilanciare l’economia di sussistenza della comunità. Il tutto ha funzionato ed è costato meno di 60mila euro, l’1% di quanto speso dagli americani per 9 capre, morte.
Gli sprechi afghani balzano alla ribalta, nel bel servizio del Washington Post, proprio quando Trump annuncia un rilancio degli sforzi per vincere la guerra, perché “siamo studi di combattere conflitti che non vinciamo”.
In oltre 16 anni di campagna afghana, la più lunga mai condotta, gli Usa hanno speso 714 miliardi di dollari in programmi di ricostruzione del Paese, istruzione, infrastrutture, dotazioni di sicurezza.
Inefficienza e corruzione, e pure progetti demenziali, hanno ridotto l’impegno in spreco: 36 milioni per un centro comando mai utilizzato – e giudicato fin dall’inizio inutile dai militari – 28 milioni d’uniformi inadeguate per l’esercito afghano; un miliardo per scuole senza insegnanti e/o studenti; 8,5 miliardi per distruggere i campi di papavero, cioè di oppio – la coltura è più fiorente che mai – 486 milioni per acquistare 20 aerei da trasporto italiani a medio raggio e darli all’aviazione afghana che non è mai stata capace di usarli – gli aerei sono stati ‘rottamati’, con spese aggiuntive.
Se questo è il contesto, chiaro che il rilancio della guerra deciso da Trump desti dubbi e perplessità. Ci sono in Afghanistan 8.400 militari americani, su un contingente internazionale residuo di circa 13mila uomini – gli italiani sono 900. Il presidente progetta di mandarne fino ad altri 4.000 in più, regolari o mercenari, lasciando ai militari la decisione su quanti, quando e dove. Funzionerà? Neppure al Pentagono ne sono sicuri.
I proclami di Trump, in palese contraddizione con la sua campagna, sono stemperati dalle profferte di dialogo del segretario di Stato Tillerson: “Siamo pronti a negoziare”. Il governo di Kabul plaude – ma poteva fare altro? –, il vecchio Karzai è critico e gli insorti, i talebani, strepitano – “Via tutti i militari stranieri”.
Più di tutti protesta lo stratega dell’isolazionismo appena cacciato dalla Casa Bianca: Steve Bannon pensa che Trump tradisce il suo slogan America First. E magari Bannon manco sapeva la storia delle capre.