Quest’estate, Nicola Gratteri ha riempito le piazze della Calabria. Da Scilla a Cittanova, da Caulonia a Soverato erano in migliaia, e spesso le sedie non erano sufficienti e neppure le panche e gli strapuntini e alla fine restavano solo i posti in piedi per ascoltare il magistrato che parla dell’Inganno della mafia (e quindi di mafia e politica, di mafia e affari, di mafia e religione, di mafia e vita quotidiana), l’ultimo saggio scritto a quattro mani con Antonio Nicaso.
Soltanto qualche anno fa, da quelle parti, una scena del genere sarebbe stata pura fantasia: al termine del dibattito, una lunga fila di persone con il libro aperto per ottenere dal procuratore capo di Catanzaro, e dunque dal capo degli “sbirri”, un autografo, una dedica, una parola. Molti gli chiedono di essere ascoltati per qualcosa che può indifferentemente riguardare cose grosse di malagiustizia o le piccole ingiustizie quotidiane. Piccole per chi, terminato l’incontro e spenti i riflettori, domani se ne tornerà tranquillamente a Roma o a Milano. Piccole non certo per Gratteri, nato a Gerace splendido borgo dell’Aspromonte, che da calabrese bene conosce la sorda delusione che ingenera il potente che dopo le belle parole non ha modo e tempo di fermarsi e di prestare attenzione, blindato dalle scorte nelle auto che sgommano e spariscono. E dunque Gratteri prende nota e fissa appuntamenti in Procura: ma non più di dieci minuti a testa, sufficienti se uno ha già deciso da che parte stare.
Per i calabresi che stanno dalla parte giusta basta pronunciare il suo nome e cognome, Nicola Gratteri, per riscattare lo stereotipo che avvolge come una pellicola viscida e ingiusta la loro terra: Calabria uguale ‘ndrangheta. Lo stereotipo è un muro portante dell’Inganno della mafia. Infatti, leggiamo, “fa comodo descrivere le mafie come espressione del degrado economico contro il quale lottano coraggiosamente magistrati e investigatori quasi sempre destinati a soccombere”. E ancora: “Lo stereotipo, maggiormente radicato nell’immaginario collettivo, è quello di una piovra invincibile, dotata di rapporti privilegiati con le istituzioni e capace continuamente di riadattarsi. Poco conta”, scrivono Gratteri e Nicaso, “che le mafie oggi siano al centro di una sempre più stringente azione di contrasto che passa attraverso la cattura dei boss, molto spesso costretti a subire pesanti condanne e a perdere le loro ricchezze”.
Nelle questioni calabresi, lo stereotipo (dal greco stereos e typos: immagine rigida) mostra la versione semplificata e largamente condivisa nella doppia direzione di mafia e antimafia. Dove al clichè nero del male assoluto, “un mondo abitato da “paranze” assetate di sangue, senza alcun margine di redenzione”, si contrappone un altro luogo comune quello, indistinto, dei cavalieri senza macchia che combattono il crimine organizzato. Spesso misconosciuti come quei giornalisti che in testate minori lontane dal clamore nazionale pagano il tributo alla libera informazione con piccoli soprusi, qualche volta con pesanti minacce. Anche nel nostro mestiere, però, gira indisturbato qualche professionista dell’antimafia. Figure, diciamo così controverse, su cui ha scritto un romanzo sospeso tra narrativa e realtà, Paola Bottero. Lei è una giornalista che con il collega Alessandro Russo riempie una mappa di iniziative culturali. Insieme alle numerose altre che illuminano la regione, si potrebbe chiamare la Calabria salvata dai libri. Il protagonista di Carta vetrata, Demetrio Romeo, un bugiardo incallito, pianifica una rapida e brillante carriera in Rai sulla montatura mediatica del suo presunto rapimento a opera della ‘ndrangheta. Sono pagine aspre che sanno di cose viste, il ritratto di una comunità confusa dove basta un bossolo trovato nella posta, spedito chissà perché da chissà chi, per trasformarsi in un giornalista (o in un politico o in un imprenditore) “intimidito”, e dunque automaticamente in un eroe civile.
Nella Calabria dei libri, spiccano naturalmente i riconoscimenti agli autori, ambiti e affettuosi, lontanissimi dalle congiure letterarie. A Cosenza, il Premio Sila, presieduto e diretto da Enzo Paolini e Gemma Cestari, è il cuore di una comunità civile che denuncia gli sprechi di un sindaco che commissiona al maestro Calatrava un ponte che unisce una discarica a una baraccopoli. O che finanzia le costose ricerche nel fiume Busento della tomba di Alarico re dei Visigoti, considerata dagli storici poco più di una leggenda. La ricca rassegna di “Leggere&Scrivere” che si svolge tra Tropea e Vibo Valentia. L’“Estate a Casa Berto”, sulla punta estrema di Capo Vaticano, un giardino dell’Eden costruito si può dire con le sue stesse mani da Giuseppe Berto, autore del Male Oscuro, capolavoro assoluto del ‘900, e che la figlia Antonia con gli amici più cari hanno trasformato in un evento. Il Premio Caccuri, anche questa una storia di amicizia e di scrittori, creata dal nulla da Adolfo Barone, Roberto de Candia, Olimpio Talarico. Emigrati di successo ritornati alle proprie radici all’ombra di un antico castello sulla strada che dalla Sila si scapicolla verso Crotone. Una minuscola comunità che nella settimana di Ferragosto, sotto la guida di Giordano Bruno Guerri, discute con passione in piazza con Pino Aprile sul Risorgimento che penalizzò il Sud o con Giulia Innocenzi sullo scandalo degli allevamenti intensivi.
Poi c’è la Calabria dei libri che devono essere ancora scritti. Da Carmelo Basile, che ha creato la Fattoria della Piana nei pressi di Rosarno. Come fu che riuscì a convincere i pastori calabresi (non proprio gente socievole) a creare una cooperativa. Come fu che ogni giorno, seduti allo stesso tavolo si passano il pane e l’acqua lavoratori italiani, africani, arabi, indiani e dell’etnie e religioni più diverse. L’integrazione del lavorare insieme. Come fu creato un ecosistema autosufficiente con una centrale a biogas che l’energia in eccedenza la fornisce a migliaia di utenti. Di come ha mietuto premi internazionali sulla sostenibilità battendo colossi multinazionali. Di come, infine, sia riuscito a non versare mai il pizzo resistendo a incendi e scorrerie. Un libro ha promesso di scriverlo Gianni Speranza sindaco per un decennio di Lamezia Terme, uno che alla parola sinistra ha saputo dare valore e contenuti reali interrompendo gestioni spesso etero dirette dagli amici degli amici (amministrazione comunale dopo la sua uscita di nuovo in odore di scioglimento per mafia).
Una storia politica e di solidarietà umana in una che fu tra le zone più rosse del Sud che potrà raccontare insieme a Giandomenico Crapis, che fa il medico e scrive libri apprezzati sul giornalista Enzo Biagi e sui meccanismi televisivi del consenso. Di come Speranza, appena eletto, chiese all’allora presidente Giorgio Napolitano di sostare per qualche istante a Lamezia, sulla strada per Reggio dove si recava in visita. E come fu che Speranza camminò accanto all’auto presidenziale che procedeva lungo il corso in modo che tutti sapessero che lo Stato era lì, era tornato. Sperando che fosse davvero così. Un libro, infine, vorremmo lo scrivesse Francesco Cosentino, sindaco di Cittanova. Per spiegare come fa, con i pochi denari a disposizione, forse unico in tutta la Regione, a garantire la mensa scolastica a tutti gli alunni delle scuole pubbliche. E per raccontarci la guerra perduta contro le “vacche sacre” della ‘ndrangheta. Una sudditanza rurale e malavitosa malgrado le ordinanze con cui le prefetture dispongono l’abbattimento dei capi bovini che vagano indisturbati per i campi e le strade. Ma che nessuno osa toccare perché proprietà dei boss locali ma di cui non possono più occuparsi perché oggetto di sequestro. Resta l’immagine di queste mandrie “intoccabili” che improvvisamente, di notte, irrompono caricando le auto dopo aver travolto le staccionate della legalità. Per poi scomparire nel buio. La Calabria è anche questo.