Persino Cristoforo Colombo. Spinto dai recenti avvenimenti in Virginia, il sindaco di New York, Bill de Blasio, ha nominato una commissione per la rimozione di statue e monumenti dedicati ai nemici della Repubblica, Colombo incluso. In quanto nemico degli Indios, il suo monumento più antico è stato devastato nella notte del 21 agosto a Baltimora. La furia iconoclasta, che solleva dilemmi essenziali, raggiunge così un epilogo paradossale: condannando il suo scopritore, l’A merica ricusa se stessa quasi desiderasse di non essere mai venuta al mondo. Finché una popolazione rigetta un sistema politico siamo in un campo noto e si apre lo spazio a un nuovo tempo e a un nuova mitologia della storia. Ma cosa succede quando una società rinnega proprio in nome del pluralismo l’incrocio multietnico alle sue origini? Qui entriamo in un terreno sconosciuto, mai esplorato.
La furia iconoclasta sembrava non facesse più parte del Dna dell’Occidente e che la sua visione progressiva e razionale della storia fosse riuscita a pacificare tutti, ma evidentemente non era così. Un po’ per le crisi del mondo contemporaneo, un po’ per il loro sintomo Donald Trump, gli Stati Uniti sono entrati nello stesso movimento che ha visto protagonisti i talebani e le milizie dell’Isis secondo fenomeni certamente incomparabili, ma che appartengono a una stessa stagione culturale. Che a Chicago si discuta se rimuovere o meno il monumento a Italo Balbo su cui sta scritta un’apologia del fascismo, è un’ottima cosa, per quanto tardiva, segno di una più matura consapevolezza rispetto all’Italia, dove si fa a gara per dedicare piazze a ex gerarchi e dove l’ideologia di uno storicismo acritico attribuisce le stesse cure a ogni tipo di passato. Il monumento di Chicago, fatto di una colonna di Ostia antica, starebbe meglio nel deposito di un museo che in un giardino pubblico, ma perché spingersi fino a devastare i simboli della scoperta dell’America?
Quando nel 1792 si dovette decidere cosa fare dei monumenti divelti dalla furia popolare, un deputato dell’Assemblea costituente della rivoluzione francese, Pierre-Joseph Cambon, ebbe l’idea visionaria di “rigenerarli”, vale a dire di trasformarli da simboli oppressivi del potere in strumenti di memoria e in esempi delle capacità creative degli esseri umani. Da lì nacquero politiche culturali come le conosciamo oggi e i musei, che già esistevano, si trasformarono in istituzioni moderne, servizio pubblico indispensabile. Se voleva essere un regime diverso e più universale degli altri, la rivoluzione non poteva sbarazzarsi del passato, ma doveva farne un elemento di consapevolezza sulla strada assai lunga e sempre perfettibile dell’emancipazione. Fino agli anni Novanta sembrò che questi principi avrebbero conquistato il mondo accompagnati dall’azione dell’Unesco. Nel 2001, l’esplosione dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, provocò un brutale risveglio dalla periferia del mondo.
Oggi, l’abbattimento delle statue come reazione ai riflussi razzisti dimostra che la democrazia americana non riesce più a utilizzare i suoi nemici depotenziati come i virus inoculati dai vaccini, ma è spaventata dall’eventualità di un nuovo contagio. Che la sua promessa civile e sociale risulta più divisiva che mai. Eppure i musei federali promuovono da anni una visione condivisa della storia nazionale e nella National Portrait Gallery di Washington i ritratti di bianchi, neri e indiani, vittime e carnefici, stanno allestiti uno accanto all’altro, al punto che sembrano guardarsi in cagnesco. Le tensioni recenti sono il risultato delle provocazioni di Donald Trump, si dirà. Ma per spiegare la cronaca degli ultimi giorni non basta. A Charlottesville, in Virginia, uno dei monumenti minacciati è il doppio ritratto equestre dei generali sudisti Robert E. Lee e Stonewall Jackson scolpito nel 1936 da una donna, Laura Gardin Fraser, alla quale erano state negate innumerevoli commesse proprio in spregio per i principi di eguaglianza.
La rimozione della statua, cioè, si presta a un altro paradosso: per colpire il soggetto raffigurato si finisce per censurare post mortem una delle rare realizzazioni monumentali di un’artista donna. A questo tipo di dilemmi, la rivoluzione francese una soluzione l’aveva trovata. Sarebbe bastato spostarla in un museo o musealizzarla in situ, per raccontarne la storia, sia positiva che negativa, e “rigenerarla” come elemento di consapevolezza, magari sottolineando il lavoro dell’artista più che la figura del personaggio rappresentato, Ma questa opzione è al momento timida, lasciata alla penna di qualche sparuto intellettuale che rischia di passare per fiancheggiatore dei razzisti, mentre la vicenda finisce paradossalmente per restituire la parola a questi ultimi, poiché riconsegna i monumenti discussi a un significato che si credeva metabolizzato dalla storia. L’intera vicenda è il segno di uno smarrimento, dunque, e di una crisi che va ben oltre la presidenza Trump e che sembrerebbe coinvolgere – non più dalla periferia ma dal cuore della globalizzazione – il modello liberale di democrazia.