Dieci anni di vita per un non-partito sono molti. Vissuti spericolatamente anche, talvolta, contraddittoriamente persino con riferimento al non-programma. È riuscito il Movimento 5 Stelle a cambiare la politica, il sistema politico italiano oppure è stato il sistema politico a obbligare il Movimento a cambiare, non poco? Propenderei per la seconda opzione. Sono rarissimi i movimenti e i partiti che riescono davvero a cambiare il loro sistema politico. Oserei dire che nell’Europa del secondo dopoguerra soltanto il carismatico generale De Gaulle ha cambiato la Francia portandola dalla democrazia parlamentare della Quarta Repubblica al regime-presidenziale della Quinta Repubblica.
I Cinque Stelle hanno pensato che l’obiettivo centrale dovesse essere il rovesciamento della politica ricorrendo a tutte le possibili critiche antipolitiche e antiparlamentari, e utilizzando un vantaggio iniziale, vale a dire, i già esistenti e molto diffusi sentimenti contro la politica in quanto tale e contro il Parlamento. Hanno accompagnato questa loro strategia con la parola d’ordine “onestà” e con la lotta contro i privilegi dei parlamentari, che non sono inventati, ma esistono realmente.
L’hanno completata con un atteggiamento anti-euro e anti Unione europea che, di nuovo, solletica pulsioni esistenti nell’opinione pubblica. Le recentissime affermazioni di Di Maio su euro e Europa segnalano una svolta, vera. No, l’Europa non la cambierà il Movimento 5 Stelle.
Entrati in Parlamento definendosi cittadini, gli eletti delle Cinque Stelle hanno dovuto imparare che sono deputati e senatori con compiti specifici che nessun cittadino può svolgere, che qualche milione di cittadini-elettori ha voluto affidare loro. Con fatica e con impegno, molti di loro hanno imparato. Prima imparano anche che il limite ai mandati, senza nessun’altra considerazione, significa buttare l’apprendimento e ricominciare quasi da capo meglio sarà per loro e per i loro elettori.
In Parlamento non hanno sviluppato un’azione di respiro, ma hanno perseguito quella che nel Sessantotto si chiamava pratica dell’obiettivo. In parte sono riusciti a imporre la riduzione dei costi della politica anche se, per quanto riguarda i non-vitalizi, il discorso rimane aperto e ambiguo. L’obiettivo caratterizzante è quello del reddito di cittadinanza. Fa certamente presa. Merita di essere meglio precisato. Ha già costretto il governo a incamminarsi su una strada non del tutto divergente con l’approvazione del reddito di inclusione. Quanto alla democrazia della Rete, partecipativa, deliberativa, difficile dire se stia funzionando al meglio all’interno dello stesso Movimento. Scherzando sosterrei che è stata praticata in maniera altalenante, non sempre coerentemente e soddisfacentemente, in attesa di scoprirla.
Che cosa è davvero mancato al Movimento 5 Stelle? Per cambiare la politica e il sistema politico non basta ridurre i costi e limitare i mandati elettivi. È indispensabile un vero e proprio progetto elettorale e costituzionale. Respingere le riforme peggiorative à la Renzi-Boschi, oltre che un dovere morale, è la premessa per un vero progetto. Però, il Movimento 5 Stelle ha giocato di rimessa.
Sicuramente, non basterà la legge elettorale che Toninelli chiama legalicum, quella che discende dalla non proprio brillante sentenza della Corte costituzionale. Per quanto mai disprezzabile una buona legge proporzionale rende difficili cambiamenti profondi. I pentastellati dovrebbero avere imparato che, con tutte le differenze iniziali da caso a caso, a livello locale, il potere di governo lo hanno conquistato anche grazie a un meccanismo premiante che, con il doppio turno, consente agli elettori di scegliere il sindaco.
Il resto, soprattutto a Roma, è il segnale che una classe dirigente non s’improvvisa, ma la si addestra e seleziona in anticipo. I Cinque Stelle potranno anche celebrare il loro primato elettorale nella prossima primavera ma, privi di una maggioranza assoluta e indisponibili a qualsiasi coalizione, dovranno ancora fare i conti con il sistema politico che c’è.