di Lorenzo Giarelli
Il rapporto tra Oliviero Beha e la Rai è sempre stato tormentato. Adesso, a quattro mesi di distanza dalla sua scomparsa, dopo anni di contenziosi in tribunale e accuse, è arrivata anche la decisione dei giudici: il giornalista fu demansionato per due anni tra il 2008 e il 2010, e l’azienda dovrà pagare circa 180 mila euro di risarcimento danni, che a questo punto spetteranno ai suoi eredi.
Quando lo scorso 14 maggio è morto a Roma, stroncato da una malattia fulminante, in tanti lo hanno ricordato come una firma scomoda, invisa ai poteri politici e ai consigli d’amministrazione. Sarà stato per questo che Beha, pur avendo un contratto da caporedattore con Rai Sport, da anni non veniva più impiegato dall’azienda, che pagarlo e non farlo lavorare, pur di tenerlo lontano dalle telecamere. Ora, la Corte di Appello di Roma, ribaltando il giudizio di primo grado e accogliendo il ricorso presentato dall’avvocato Giampiero Falasca, ha condannato la tv di Stato per averlo ingiustamente demansionato nel periodo compreso tra il 9 luglio 2008 e il 4 novembre 2010. La Rai ora avrà dieci giorni di tempo per versare l’intera somma (180 mila euro, più spese legali) alla famiglia. In attesa dell’esito del più che probabile ricorso in Cassazione, la sentenza ha confermato quanto il diretto interessato denunciava da tempo: il giornalista era stato “parcheggiato” su programmi e compiti marginali, isolato ed escluso da tutte le attività più importanti, senza neanche poter più svolgere le normali funzioni di coordinamento della redazione che gli sarebbero spettate in qualità di caporedattore.
Non è la prima volta, del resto, che la Rai viene punita per il suo comportamento nei confronti di Beha. Già nel 2004, per esempio, era stata condannata in sede civile per la forzata inattività dello scrittore fiorentino. Stessa musica nell’aprile 2007, quando il giudice aveva disposto all’azienda di utilizzare Beha “in maniera adeguata alla carica di vicedirettore”. Da allora, però, non era cambiato nulla: Viale Mazzini aveva continuato a ignorare la sentenza e a Beha era stata concessa soltanto una striscia settimanale di due minuti durante il Tg3 delle 19, in onda la domenica.
Anche l’ultimo programma tutto suo, chiamato Brontolo (come il suo soprannome) e datato al 2010, aveva avuto vita dura: la Rai sosteneva che non dovesse percepire uno stipendio a parte per la trasmissione, ritenendo che il compenso fosse compreso in quello già percepito. Anche in quel caso la questione finì in tribunale e a Beha furono riconosciuti 1.300 euro extra a puntata. La sua carriera nella televisione pubblica, praticamente, finì lì. Più niente, a parte sei puntate a Telepatia, programma nascosto tra la seconda e la terza serata del sabato sulla terze rete. A un certo punto Beha ha anche avuto la sensazione di essere finito in una specie di blacklist degli ospiti, dato che capitava che qualche collega lo invitasse come opinionista, e poi l’invito venisse puntualmente annullato.
Per questo le cause erano andate avanti regolarmente per anni. Nel frattempo a Viale Mazzini si erano alternati direttori e consigli d’amministrazione di ogni genere e orientamento, a dimostrazione che il suo caso non aveva colore politico. Persone a lui vicine raccontano che, a ogni cambio al vertice, il giornalista veniva rassicurato sulla volontà di risolvere la questione e restituire dignità al suo contratto. E ogni volta le promesse non venivano mantenute. Quattro mesi dopo la sua morte, ci ha pensato un tribunale a farlo.