L’intervista - Dario Vergassola

Dario Vergassola: “Mi sento un miracolato: c’ero o no, non importava a nessuno. Ed è normale”

Il comico: “Per molto tempo ho continuato la vita da operaio, la realtà di provincia”

17 Settembre 2017

Venerdì sera, ogni venerdì sera, verso le sette e mezzo arrivava il “fine registrazione” di Parla con me, il programma condotto qualche anno fa da Serena Dandini su Rai3. Bene, bravi tutti, pacche sulle spalle, qualche sospiro di sollievo, progetti per la serata, inviti incrociati; è il momento dell’aperitivo, delle pubbliche relazioni, delle conoscenze dalle quali può nascere qualcosa di interessante. Non per Dario Vergassola. “Io mi sbrigavo, volevo salire in macchina, tornare a casa, a La Spezia, con una buona andatura in circa tre ore e mezzo ci riuscivo. Poco prima di arrivare chiamavo i miei amici radunati in pizzeria: ‘Oh, aspettatemi, e lasciatemi qualcosa da mangiare’. In realtà sarei dovuto restare a Roma, ma proprio non ci riuscivo… oddio, non sono in grado neanche oggi: io devo stare qui, nella mia provincia, la famiglia, gli amici, gli odori”. Nel film Radiofreccia di Luciano Ligabue, a un certo punto uno dei protagonisti riflette: “Credo che la voglia di scappare da un paese con ventimila abitanti vuol dire che hai voglia di scappare da te stesso, e credo che da te non ci scappi neanche se sei Eddy Merckx”…

Lei non è scappato…
Sto bene così, sono a mio agio in questo modo, sicuramente ho perso dei passaggi importanti per la mia professione, non importa. Amo svegliarmi e guardare i miei paesaggi, mantenere un dialogo con la mia storia.

Una storia da operaio…
Sedici anni all’Arsenale di La Spezia, uscivo in mare, ero una sorta di Corto Maltese dei poveri, tutti insieme, una comunità costruita intorno a quel polo, con le sue piccole o grandi liturgie, dinamiche, piccoli o grandi momenti di solidarietà e piacere collettivo, come quando rientravamo in porto e organizzavamo delle incredibili mangiate di muscoli (cozze).

Ne parla con tono affettuoso.
Agli inizi della sua storia, era un luogo all’avanguardia in Europa, e dentro una struttura bellissima: ci sono zone costruite con enormi blocchi di arenaria, quando ci penso ancora mi emoziono, pochi riflettono su quanta sofferenza umana è stata messa in campo per realizzare i bacini.

Anche i suoi genitori lavoravano all’Arsenale?
No, i miei pulivano le scale, gente silenziosa, pratica, magari dei mugugnatori, nessun vezzo; nel De Bello Gallico Cesare descrive così la gente di queste parti: ‘Uomini che sembrano bestie e donne che sembrano uomini’. Perfetto. Mio padre era uno che si incollava sulle spalle per ore chili e chili di uva e per realizzare pochi litri di vino. Questo è il parametro.

Lei quanto guadagnava?
Circa 850 mila lire al mese con moglie e due figli. Mi ricordo un’estate: per andare in ferie fu un salasso, solo la casa costava 500 mila lire.

E da ragazzo?
Con gli amici prendevamo la tenda e ci piazzavamo tre mesi in Palmaria (isolotto davanti La Spezia), tutto di nascosto, non si poteva: ogni mattina la smontavamo, appena calava il buio si ricominciava, eravamo convinti di impersonificare una sorta di novelli Robinson Crusoe, vivevamo di pesca, ogni tanto i militari presenti si univano a noi e di nascosto, magari ci scambiavamo le sigarette.

Lì le prime esperienze sentimentali…
Sì, ma le donne te le dovevi portare, lì non trovavi nulla, al massimo la rubavi a un amico…

Lei colpevole di “furto”?
No, io sono una vittima: la mia prima canzone ironica, Marta, nasce proprio da un corno subìto. Però eravamo amici.

Sempre gli amici.
Ho un nucleo unito dai tempi delle elementari, gente in grado di condividere ogni fase della vita e per scelta; sono cresciuto in un ambiente che è una via di mezzo tra Amici miei e Il grande freddo; tra la goliardia e la riflessione.

“Il grande freddo” inizia con un funerale…
Di solito li salto, non riesco a vivere quei momenti. Però poco tempo fa è deceduto uno del gruppo, e sono andato, ma senza entrare in chiesa. Anzi, anche gli altri fuori con me: a un certo punto ci siamo vergognati, piangevamo e ridevamo, e poi ancora ridevamo nel ricordo delle nostre avventure con lui.

Sua moglie?
Donna di una serietà imbarazzante, a me e ai figli incute timore ancora adesso. La mia prima sera in televisione, ospite di Maurizio Costanzo, l’ho poi chiamata per capire se le ero piaciuto: ‘Mi dispiace, va in onda troppo tardi, mi sono addormentata’.

Mentre quella puntata le ha cambiato la vita.
A quel tempo Costanzo era come un viaggio a Lourdes per diventare conosciuti: aveva una capacità unica di comunicare, di arrivare, esaltare il meglio di te. E poi, all’improvviso, con una serata sola ho guadagnato la stessa cifra di quanto prendevo in un intero mese. Improvvisamente ero diventato famoso.

Improvvisamente.
Il giorno dopo la trasmissione mi fermarono ovunque, anche al casello autostradale, lo stesso che da anni superavo in incognito.

Però tutto nasce grazie alla manifestazione “Professione comico”…
Con Giorgio Gaber sul palco. Oh, dico Gaber! Mia moglie era in prima fila, la guardo soddisfatto, cerco un suo cenno d’intesa, invece la vedo con la testa inclinata. Dormiva. Erano le dieci e mezzo. (Silenzio) Però l’adoro, è una donna meravigliosa, e per favore non riporti molto di lei, non le piace apparire.

“Zelig”.
La prima volta sono andato da solo, in viaggio con la mia Fiat 127; per calmarmi ho preso venti gocce di Lexotan.

Il suo repertorio?
La mia vita, il lavoro, la famiglia, in particolare mia madre. Io stupito, niente di più semplice: tutto ciò piaceva a Gino e Michele, loro in platea alternavano una caramella a una risata.

Perché sua madre?
Per la sua ironia involontaria: lavorava in una casa borghese, quindi ascoltava dei vocaboli a lei sconosciuti, quasi esotici, comunque termini che rappresentavano l’anticamera dell’evoluzione sociale. Bene: questi vocaboli causavano delle scenette memorabili, li utilizzava a caso.

Tipo?
C’è una storia che racconto da quasi trent’anni nei miei spettacoli, ed è vera. Io e papà discutiamo in casa, alziamo un po’ la voce, lei a un certo punto si scoccia: ‘Basta, piantatela, quando urlate così mi fate venire un orgasmo!’.

E suo padre?
Con tono pacato mi guarda e dice: ‘Salutala finché ci riconosce…’.

Tempo comico perfetto.
Unici. Non esistono autori satirici in grado di superare due così, e infatti li ringrazio.

Teme la non risata dei presenti?
Da morire. Per questo ho iniziato a portare la chitarra in scena, mi aiuta, dà i tempi: quando finisce la musica il pubblico comprende che è arrivata anche la battuta.

Quindi c’è chi non la capisce…
Provino in Rai. Parto con il repertorio, sono carico, o almeno credo. Passano alcuni minuti, fino a quando il capo mi ferma: ‘Non ci puoi rompere le balle con la tua storia. Inizia e non perdiamo altro tempo’. Non solo: un’altra volta salgo su un palco di Roma, inizio, reggo dieci minuti, forse meno, poi dalla platea la sentenza: ‘Non ci angoscià, suona!’.

Per fortuna altri le hanno comprese…
Sì, ma per anni ho condotto una sorta di doppia vita: la mattina all’Arsenale, poi prendevo la macchina e correvo a Milano per salire sul palco di Zelig.

Quindi non ha lasciato subito il suo lavoro?
Assolutamente. La sera ero di cabaret, poi restavo con i vari Claudio Bisio, Paolo Rossi e altri e giocavamo a biliardino; ripartivo e la mattina indossavo la tuta.

Gli amici e colleghi cosa le chiedevano della sua vita milanese?
Se c’era gnocca, se si trombava. Solo alla fine domandavano qualche retroscena sui vari personaggi. Ma la priorità era la gnocca.

Quali colleghi-comici seguiva?
Adoravo Paolo Rossi, sembrava non recitare, uno passato di lì per caso, quasi surreale; poi Maurizio Milani, veramente un grande, sottovalutato: l’ho scoperto ai tempi di Odeon tv. E David Riondino, ma con lui è un’altra storia, per anni insieme a teatro.

Chi sono i comici?
Siamo tutti disgraziati, fisicamente brutti, escluso Giole Dix che è bello e ricco. Per il resto siamo così, uomini e donne. Comunque Zelig lo vivevo come un dopolavoro.

Un gioco…
In quel periodo mi capitava di partecipare a serate con poca gente, magari falcidiate dalla pioggia: chiedevo di non venir pagato.

La celebrità non è stata un riscatto sociale.
Zero. Non ce n’era motivo. E per questo alcune mie scelte non sono state finalizzate al successo: oltre a non restare mai il venerdì sera a Roma, non ho scelto un manager rampante, uno di quelli in grado di infilarti dappertutto, di importi al pubblico, di renderti simpatico anche se simpatico non lo sei.

Comandano gli agenti?
Abbastanza, magari vorrei pure uno di loro ma non mi prendono. Comunque professionalmente mi segue gente perbene, che lavora in modo normale, infatti ogni anno convivo con una sorta di precarietà artistica, mi domando quale sarà lo spazio.

Ha qualche rimpianto?
Per me poteva andare molto meglio, però anche molto peggio, per questo mi sento un miracolato. Se c’ero o non c’ero, non fregava un cazzo a nessuno, e questo punto non lo perdo mai di vista, è necessario relativizzarsi per mantenere il giusto rispetto di noi stessi. Nessuno è fondamentale.

Al “Fatto” Bruno Voglino ha raccontato dello stress di voi artisti.
Da sempre convivo con attacchi di stress e panico, anche quando stavo all’Arsenale; in uno sketch racconto che sono talmente a pezzi da essermi fatto la prima canna al pronto soccorso. In qualche modo questa professione mi ha migliorato.

Ed è vera pure questa storia della canna?

È una mezza verità. Ora le do un parametro su quanto è cambiata la mia vita: da operaio non mi spostavo in auto neanche da La Spezia a Sarzana (16 chilometri); da comico sono arrivato in Fiat 127 fino a Bari, sempre carico di Lexotan.

E quando ci riflette?
È come un giro di giostra durato pure molto, per questo non ci ho mai puntato tutto, ho lasciato il più possibile intatta la mia parte originaria.

Con qualche comico ha ricreato un clima di amicizia?
Con alcuni abbastanza, ma la chimica nasce dal condividere sistematicamente e alla fine non frequento nessuno fuori dal mio giro originario. Ripeto: non partecipo a serate vip. Ah, soffro anche di reflusso esofageo.

Mancava all’appello.
Aspetti, le racconto di una sera.

Per il reflusso?
No, per farle capire il rapporto con gli amici. Non dormivo, e non era tardi, non sapevo come rilassarmi, così telefono a quello considerato lo scienziato del gruppo anche se è un professore di ginnastica. Mi risponde senza entusiasmo: ‘Va bene, ti aspetto per un caffè’.

Il caffè è perfetto per dormire.
Vabbè. Però entro in casa loro, neanche una parola, un ‘come stai va tutto bene?’. Niente. Mi versa il caffè e senza dire nulla si rimette a letto con la moglie.

E lei?
Mi sono sdraiato accanto a loro, guardavano la fiction Carabinieri con me tra i protagonisti della puntata.

Sempre zitti.
Sempre! Dopo mezz’ora mi sono alzato, ‘ciao’ ‘ciao’ e sono andato via. Neppure un film di Aki Kaurismäki arriva a tanto.

Le sue interviste improbabili hanno mandato in crisi molto personaggi…
Non capivano, erano storditi dalla situazione e dalle domande; perdevano i punti fermi, non sapevano come reagire, se assecondare o attendere; se incavolarsi o fingere allegria.

Qualcuno si è realmente stranito.
Asia Argento si è avvelenata quando le ho chiesto: ‘È vero che quando ha avuto la prima mestruazione ha pensato a uno scherzo di suo padre?’.

Sua moglie cosa le diceva?
Di non esagerare. E aveva ragione: dovevo dosare le battute e cercare di non diventare troppo pesante.

La sua passione sono i libri.
Ho iniziato con i fumetti, li leggevo quando seguivo mia madre nelle case che puliva. Lei lavorava e io sognavo con quelle pagine. Ancora ricordo la Ballata del mare salato di Pratt, e con i primi soldi guadagnati grazie a questa vita, sono andato al Lucca Comics e ho acquistato una sua tavola originale.

E con i successivi guadagni?
Sono riuscito a togliermi delle curiosità, tipo partire per Vilnius dopo aver letto Anime baltiche (di Jan Brokken) e cercare quegli odori descritti; stessa cosa con l’Islanda, un paese talmente bello e intenso che dovrebbe essere gratuito visitarlo, a disposizione della collettività.


Quest’anno ha compiuto 60 anni.
E mi sentivo come un barattolo di pittura verde, e parlo della tintura per le persiane, oramai giunto alla fine, quando restano solo due dita di vernice e non sai se tenerlo o buttarlo. Poi è nata mia nipote ed è stata come l’acqua ragia, ha diluito tutto, ha fluidificato l’ultima parte della vita: i nipoti sono un’imbarazzante anestesia alla morte.

(Spesso Umberto Pizzi arricchisce queste pagine con le sue foto. Come sempre gli abbiamo domandato: “Ci sono immagini di Vergassola?”. E lui: “Lo cerco da anni: impossibile; lui non frequenta le feste, non esce la sera. Torna sempre nella sua La Spezia”).

Twitter: @A_Ferrucci

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