Nella politica economica c’erano poche certezze: se hai un bisogno disperato di soldi, puoi sempre aumentare le tasse sulle sigarette, i produttori alzeranno un po’ i prezzi, i fumatori protesteranno ma continueranno a fumare. Ma non è più così semplice: a inizio 2017 il ministero del Tesoro si aspettava di incassare 11,05 miliardi di euro dalle “imposte sul consumo dei tabacchi”. Poi, per correggere in corsa i conti dell’anno, nella “manovrina” di primavera ha previsto un piccolo inasprimento fiscale che doveva portare altri 85 milioni. E invece il Senato ha appena votato l’assestamento, cioè una correzione tecnica dei conti dell’anno in corso, in cui la previsione di incassi dalle tasse sulle sigarette scende di un miliardo secco, da 11,05 a 10,05 miliardi. I calcoli interni all’Agenzia dei monopoli, che raccoglie le accise per conto del Tesoro, dicono che la differenza potrebbe rivelarsi minore, alla fine, ma comunque superiore ai 500 milioni.
Anche le sigarette elettroniche sono un (prevedibile) disastro: i consumatori sono scesi dai 2 milioni del 2013 ai 500.000 del 2015, ma comunque a inizio anno il Tesoro aveva previsto un gettito fiscale dal settore di 5 milioni di euro e invece ora la stima scende a soli 3 milioni. Il tracollo delle sigarette elettroniche non stupisce, tra evasione fiscale diffusa nel settore, scarsa convinzione dei consumatori e arrivo di nuove tecnologie come il tabacco scaldato dell’iQuos di Philip Morris. Ma sono pochi spiccioli. Una revisione al ribasso così netta sul settore delle sigarette tradizionali è una novità rilevante. Anche se il Tesoro continua ad attendersi incassi ottimistici per i prossimi anni, 11,4 miliardi nel 2018 e 11.7 nel 2019, nonostante il mercato sia in calo, quest’anno, di circa il 2 per cento (previsioni che saranno riviste nella legge di Stabilità).
Quello del tabacco è un settore delicato: da tempo i grandi gruppi hanno messo in conto che il loro destino è affrontare aumenti del carico fiscale, calo della domanda e crescenti limiti al fumo negli spazi pubblici. Per questo stanno cercando, oltre a limitare i danni, di spostarsi su prodotti che mantengano la dipendenza ma siano meno tassati e più fruibili. Dal punto di vista dello Stato, alzare le tasse in modo troppo brusco o eccessivo rischia di far crollare il gettito, se crollano i consumi o se migrano verso il contrabbando.
Nel 2015 è cambiata la struttura delle accise che gravano sul pacchetto di sigarette, poi alzate con la “manovrina” 2017: aliquota base è passata dal 58,7 al 59,1 per cento, quella “specifica” cioè per unità di prodotto è salita dello 0,5 al 10,5 per cento, aumento di 5 euro per l’onere fiscale minimo sulle sigarette che passa da 170 euro al chilo a 175,54 euro. “Un tale intervento, incrementando l’incidenza fiscale sui prodotti di prezzo basso, non sembra rispondere alle finalità originarie della riforma che doveva tracciare un percorso di crescita bilanciata e sostenibile del carico fiscale”, notano tre economisti (Marco Spallone, Stefano Marzioni, Alessandro Pandimiglio) in uno studio coordinato dal centro Casmef della Luiss e sostenuto da British American Tobacco, uno dei gruppi colpiti dalla riforma perché opera nei segmenti a basso prezzo. Il Tesoro si aspettava che i produttori trasferissero le nuove tasse in aumenti del prezzo. Ma non è successo, a differenza di quello che si era osservato negli ultimi anni: nel 2015, per esempio, l’anno della riforma del settore, il mercato era calato dello 0,8 per cento, le accise aumentate del 2,9 e i prezzi del 3,3 per cento.
I produttori di fascia alta hanno una domanda abbastanza rigida e sono più liberi di decidere se alzare i prezzi o meno, quelli che offrono marchi più economici hanno ormai riscontrato che trasferire le nuove tasse sui consumatori finisce per causare più danno che beneficio, visto che si perdono clienti. Usare le sigarette come bancomat, per il Tesoro, rischia di essere sempre più difficile.