Cuba è diventata subito leggenda. Questo spiega perché la mattina del 31 dicembre 1960, primo anniversario della rivoluzione giovane e allegra che aveva messo in fuga il dittatore Fulgencio Batista, mentre festeggiava il capodanno all’Hotel Nacional, c’erano Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Francoise Sagan, accanto alla scaletta dell’aereo che veniva dal Messico.
Io, che venivo da New York (allora c’era ancora un collegamento) da giornalista sono stato richiesto, da un soldato non giovane in divisa da Sierra e con la barba, di accostarmi al gruppo perché qualcuno sarebbe venuto a incontrarci. Per quanto si poteva vedere tutto era immobile all’aeroporto e non sembrava che una folla fosse in arrivo o in attesa per un anniversario di cui intanto si stava scrivendo e discutendo ovunque nel mondo. Fidel Castro, con la presa di Cuba e lo spandersi della leggenda, stava già cambiando il paesaggio politico e toccando anche la cultura del mondo.
Nessuno, tranne Castro, ha contribuito a costruire la leggenda di Castro, e la vasta simpatia che si stava diffondendo nel mondo, quanto l’ostilità angolosa e cattiva di Richard Nixon, per molti decenni il meno amato dei leader politici americani.
Il nostro gruppo era strano. Sartre era stato invitato personalmente da Fidel. Io arrivavo con un visto a matita scritto sul passaporto da Raulito Castro, figlio di Raul, ventenne che faceva parte della delegazione cubana (quattro ragazzi) inviata in fretta all’Onu dopo la vittoria della rivoluzione, e amico di amici.
È in questa scena immobile e imbarazzata che arriva, troppo veloce, la jeep che sgomma e inchioda e pochi centimetri da noi. Un po’ lo sapevamo già che Guevara era Guevara. Un po’ lo sapeva anche lui, che a quel tempo non aveva ancora rodato il suo modo deliberatamente “rebelde” di presentarsi. Era gentile di indole, e cortese per buona educazione, irrequieto come un ragazzo, non come un soldato, come se non fosse appena tornato da anni di guerra sulle montagne (la Sierra) e non fosse il protagonista di una collezione di episodi che non avevano ancora fatto il giro del mondo e si raccontavano solo a voce.
A me ne aveva parlato per settimane il giornalista americano Herbert Mathews, nella mitica lounge del Palazzo di Vetro. Matthews aveva seguito e raccontato la “revolution” dalla parte di Castro e l’aveva resa popolare in Usa sul New York Times che Nixon chiamava “la Gazzetta di Cuba”).
Non voglio dire che “in su querida presencia” (cito la celebre canzone) il comandante Che Guevara cercasse di non essere il personaggio della storia. Certo occupava spazio e cambiava le proporzioni della scena il fatto che lui fosse lì, a un passo, anzi ti stava stringendo la mano con un bel sorriso un po’ mondano (la barba a ciuffi, il viso già disegnato nella nostra memoria dagli eventi, ma più bianco e “upper class” delle immagini da combattimento, creava una tensione che era anche la sua. Sentivi l’intento un po’ teso di un uomo allo stesso tempo estroverso e timido, celebre ma anche sconosciuto (a quel tempo) di non farsi chiudere nella parte dell’eroe famoso.
Guidava lui e gli piaceva correre. Un lembo del cappotto grigio spigato di Sartre, che sbatteva al vento, le mani sulla testa della Beauvoir (come per tenere ferma qualcosa), l’aggancio sportivo e saldo della Sagan alle sbarre protettive troppo basse di una jeep di quel tempo, sarebbero stati una bella immagine se ci fossero stati fotografi. Un gruppo (non tutti in divisa, non tutti con la barba) aspettava i Sartre per portarli subito da Fidel o forse, prima, dal presidente della Repubblica, Dorticos. Noi invece siamo arrivati, con sobbalzi che ti facevano saltare sul sedile, in una corsa nervosa e allegra, all’Hotel National, che era stato per decenni il celebre ritrovo della mondanità americana e caraibica, non sempre pulita ma molto narrata.
Me lo ha indicato da fuori con un gesto da regista, le finestre chiuse delle stanza vuote, i cornicioni slabbrati, qualche segno di spari sulla facciata bianco avorio su cui cominciavano a comparire i segni delle grandi piogge. Non c’erano chiavi, non c’era personale, solo un soldato giovane a cui Guevara ha dato la mano. Il salone d’ingresso, rettangolare e lunghissimo, era illuminato da lampadine che pendevano dal muro. Solo un lampadario spezzato dondolava lievemente. Degli altri restavano i fili. Con la mano sulla spalla mi ha incoraggiato, mi ha detto di non preoccuparmi. Alcune stanze erano in ordine, ma avrei dovuto rifarmi il letto la mattina e portarmi in camera acqua da bere. Quella dei rubinetti non era sicura.
Lui tornava a prenderci la sera, per la gran fiesta e il discorso di Fidel. La camera era grande e bellissima, anche se non c’erano tende alla grande finestra, anche se l’intonaco bianco e il legno bianco e laccato dei mobili non erano privi di segni di qualche evento che aveva richiesto rudezza.
La sera (per prudenza, non sapendo definire gli orari della sera, ho aspettato a lungo nel salone ormai semi buio) due grandi auto americane (credo fossero Buick) ci aspettavano. Nella mia guidava un militare barbuto, felice di parlare al mondo, ma solo dei suoi figli e di come erano cresciuti durante la revoluciòn. Che Guevara guidava il gruppo Sartre, ma ben presto la folla, che ormai occupava tutto il centro dell’Avana, ha imposto di rallentare a passo d’uomo. Il luogo era l’ex Hotel Hilton, ora diventato il palazzo della gioventù cubana.
Ho ritrovato Guevara sulla grande terrazza che dominava il dodicesimo piano. Il parapetto era troppo alto, e una pedana era stata costruita tutta intorno. Erano arrivati tutti i comandanti e i compagni che avevano conquistato a una a una le roccaforti, le caserme, le città controllate dai “fascisti” (era la parola) del dittatore Batista, i treni di armi, i convogli di rinforzi. Di ognuno, facendomi fare il giro della terrazza Guevara mi diceva il nome di un luogo quello che aveva dato il nome al loro gesto più audace, più pazzo, più eroico.
Erano arrivati tutti tranne Fidel Castro, che la folla dal basso invocava. C’era un solo microfono su una pedana appena un poco più alta. E nel momento in cui Che Guevara mi teneva il braccio per guidarmi dall’altra parte della terrazza a conoscere Camillo Cianfuegos (a quel tempo, e prima della sua morte giovane, il terzo eroe della rivoluzione) un uomo piccolo e magro, con la fisarmonica e una gran voce, ha iniziato a cantare sotto il microfono (troppo alto per lui) destinato a Fidel, una canzone che finiva sempre, quasi in un acuto, con le parole “Yankee go home” ripetute come in un rito dalla folla.
Era certo il segnale di una risposta sempre più dura a Nixon che, alcuni mesi prima, a Washington, aveva impedito o dichiarato “tradimento”, ogni incontro con Fidel Castro, (prima e unica visita di Fidel a Washington) molto prima della “svolta comunista” di Cuba. Ho fatto in tempo a conoscere Cianfuegos e poi Raul Castro, il fratello legatissimo e in ombra (che aveva autorizzato il figlio a darmi quello strano visto a matita) e dopo una esplosione d’entusiasmo della folla, il grande silenzio. Parlava Castro. E io mi sono dovuto fermare nel punto in cui ero quando il discorso è cominciato, fra Raul Castro e Che Guevara. Il discorso ha annunciato l’inizio di un lunghissimo scontro (eppure mancavano settimane all’evento della “Baia dei Porci”) e il continuo rombo di partecipazione della folla era affetto e sostegno al liberatore Fidel, molto più che una dichiarazione di odio all’America. I giorni seguenti Che Guevara mi ha parlato molto di economia. Non era il suo forte né il mio, ma lui stava per essere nominato (ne parlava con un po’ di sarcasmo) governatore della Banca Centrale di Cuba. A lui interessava non la gestione dei soldi ma la distribuzione dei soldi, e benché fosse cresciuto agiato, la sua attenzione era sul come diminuire la povertà, non come proteggere la ricchezza anche se di Stato. A parte una corsa di vera felicità lungo il Varadero e una vista alla casa di Hemingway, gli interessava fermarsi e farmi vedere dove e come si viveva a Cuba. Era crollata un’economia ma non ne era nata un’altra.
Guevara aveva un progetto, le “Tiendas del Pueblo (ciò che nascerà in molte città americane anni dopo con il nome “Farmer market”, in cui si stabilisce un rapporto diretto e senza mediazioni fra chi produce e chi vende, l’idea meno comunista e più solidaristica a cui si possa pensare. A differenza del primo giorno, rideva spesso e si entusiasmava.
La sua non era conversazione, e non era monologo, perché diceva sempre “vedi?”, “capisci?”. Era un pensare ad alta voce, vitale e isolato. Parlava ma non a un vicino e non a se stesso. Parlava a una presenza collettiva che non erano i compagni e non era la rivoluzione. Erano tutti quelli intorno al nostro andare e venire per l’Avana. Vedeva benissimo che si domandavano, come dei ragazzi che si sentono liberi dopo la rivoluzione: e adesso come vivo?
Per capire dove siamo (il tempo, molto più del luogo) e che cosa sta accadendo, immaginatevi un grande gruppo di gente giovane, molti sotto i trenta, che hanno combattuto dal niente e hanno vinto, che sono tutti vivi, tutti legati da un vincolo, da una euforica persuasione di vincere ancora, Anche se l’embargo americano sbarra la strada. È qui, in questo punto che Guevara si stacca dal gruppo. Mantiene l’affetto. Ma lo allontana la rivoluzione che diventa comando e burocrazia.
Questo spiega perché in fondo alla sua esuberanza, che sembra allegra, senti malinconia. Appare nelle parole (la lunga descrizione del rapporto fra produrre e distribuire che è allo stesso tempo ideale e impossibile) e appare nelle immagini in cui Guevara (prima della Bolivia) è sempre più chiuso e pensoso. C’è differenza fra il momento in cui è avvenuto l’incontro all’aeroporto Josè Martì e le lunghe riflessioni sul che fare. A quel tempo ne ho scritto un lungo resoconto per la rivista Problemi del Socialismo di Lelio Basso e su Il Mondo. Adesso so che Ernesto Che Guevara, festoso e gentile, quando ti saresti aspettato uno sbrigativo guerriero, sapeva come sarebbe finito e perché. E che la sua sarebbe stata una testimonianza, non un’altra vittoria.