Quando Chiara Appendino (M5S) ha battuto Piero Fassino (Pd) ed è diventata sindaco di Torino, tutti dicevano che la città non aveva grossi problemi. Tranne uno: il debito accumulato dal Comune. Quel debito che ieri l’agenzia di rating Fitch ha indicato come una minaccia, tanto da aver rivisto l’outlook, cioè il giudizio di prospettiva, da “stabile” a “negativo”. La stessa scelta fatta ad aprile da un’altra agenzia, Standard & Poor’s a fine marzo.
Nessuna conseguenza nell’immediato perché, scrive Fitch, finché il Comune di Torino potrà continuare ad avere accesso alle risorse fornite dal governo centrale non c’è alcun vero rischio di insolvenza su un debito arrivato a 3,55 miliardi, cioè il 288 per cento rispetto alle entrate del Comune. Ma l’analisi di Fitch ha un suo peso politico perché riguarda i limiti della azione della Appendino e le responsabilità del passato. Per l’agenzia di rating considera “la sfida più rilevante” per la giunta Cinque stelle quella di “riportare il bilancio a una posizione di cassa positiva attraverso una razionalizzazione dei costi e un miglioramento della raccolta di tasse e tariffe”. A fine 2016, infatti, il Comune di Torino aveva un deficit di 316 milioni di euro. E soltanto il servizio del debito, cioè pagare gli interessi, assorbe il 22 per cento delle entrate.
Una situazione precaria. Che secondo la Corte dei conti del Piemonte era già precaria nel 2015, l’anno dell’ultimo bilancio tutto a firma Fassino e Pd: “Il risultato di amministrazione 2015- al netto dei vincoli e degli accantonamenti – positivo per euro 370.356.286,28 è meramente contabile”. Nel senso che “origina unicamente” dalla differenza tra 1,2 miliardi di residui attivi e 746,9 milioni di residui passivi, una compensazione tra somme dovute e somme da riscuotere, non soldi veri in cassa.
Durante il mandato dell’Appendino il debito è cresciuto ancora fino ai 3,55 miliardi di fine 2016, per un nuovo finanziamento da 45 milioni e altri debiti in scadenza da rifinanziare. Ma il grosso del debito è l’eredità della gestione Fassino e di quelle precedenti.
Nella sua relazione di fine mandato, Fassino vantava però come proprio successo di aver abbattuto l’indebitamento: da 3,284 miliardi del 2011 a 2,929 del 2015. Fitch però cita un altro numero: dice che a fine 2015 il debito era di 3,48 miliardi e poi specifica che “lo stock finale del debito include i 489 milioni di euro di prestiti sussidiati dallo Stato ottenuti dalla Cassa depositi e prestiti nel 2013-2015 per pagare i debiti commerciali”. In effetti se ai 2,929 miliardi indicati da Fassino nella sua relazione ai torinesi sommiamo i 489 milioni dei finanziamenti della Cassa depositi si arriva proprio a 3,4 miliardi. “Il prestito della Cdp era compreso nei 2,9 miliardi”, assicura al Fatto Fassino. Mistero.
Quello che è certo è la natura di quell’operazione: “L’ho negoziata io come presidente dell’Anci”, rivendica oggi Fassino. I Comuni potevano finanziarsi dalla Cassa depositi a un tasso di favore e usare quei soldi per rimborsare i debiti verso i fornitori della pubblica amministrazione che si erano accumulati per anni. Un’operazione, però, che sostituiva debiti con altri debiti, verso un ente pubblico invece che verso imprese. “Io ho ridotto il debito, da 3,3 miliardi a 2,9, sfido la Appendino a fare lo stesso”, dice Fassino, che ha sempre reagito male alle accuse del M5S di aver nascosto debiti fuori bilancio e abbellito i numeri delle finanze comunali. La Corte dei conti non ha riscontrato queste irregolarità ma parecchie disinvolture, come “il finanziamento di spese correnti – e quindi il raggiungimento dell’equilibrio – mediante applicazione di poste attive (l’avanzo vincolato) che sono meramente contabili (non esiste un fondo cassa che lo renda effettivo) e a loro volta da finanziare”, visto che il Comune era già in deficit e quindi soldi da spendere non ce n’erano.
Per fortuna, osserva Fitch, che l’economia torinese che deve generare le risorse necessarie a pagare gli interessi su quel debito è solida.