Pochi metri quadrati, veramente pochi, e senza eufemismo o desiderio di leggenda; un palco alto un metro o poco meno, qualche sedia sparsa, dei divanetti in fondo; a quel tempo era ancora permesso fumare, la nebbia era talmente densa da ridurre ogni percezione, dalle misure degli spazi, ai contorni delle persone. Birra, vodka, ancora birra.
Questo posto a Roma si chiamava il Locale, da qui, venti e passa anni fa è uscita una generazione di musicisti da hit e da sostanza, applauditi a Sanremo e al Primo Maggio; tutti nati così, quasi all’improvviso, seduti su quei divanetti si alzavano e salivano sul palco, chitarra in mano, pianoforte tra le dita, e via con la jam session: da Max Gazzè a Niccolò Fabi; da Rocco Papaleo ad Alex Britti, fino a Daniele Silvestri.
Silvestri è sempre stato considerato il “padre” tutelare nonostante sia coetaneo degli altri: “Forse un tempo, adesso non più, specialmente dopo il disco e la tournée organizzata insieme a Max e Niccolò”. Il trio, quel trio, non c’è più, e per una sera (il 21 ottobre a Milano) si trasformerà in sestetto: a Silvestri, Fabi e Gazzè, si aggiungeranno Manuel Agnelli, Samuele Bersani e Carmen Consoli, per Cose che abbiamo in comune…
Non vuole più stare solo su un palco?
Si sta meglio in compagnia, cambiano le percezioni, le stesse si arricchiscono, aumentano le variabili, e il caso genera situazioni interessanti. E poi anni fa avevo pensato di lasciare la musica, credevo di aver detto tutto o quasi, ero insoddisfatto del disco quasi concluso….
E poi?
Mi sono ritrovato coinvolto nel progetto con Niccolò e Gazzè e ogni percezione si è ribaltata, ho mollato il disco, oggi blindato in un cassetto, e sono ripartito.
Il disco è realmente blindato?
Neanche ci voglio pensare; non è stato facile abbandonarlo, non tanto per me, ma quando si avvia un progetto bisogna rispondere e rispettare molte professionalità. E pensare che allora tutto è nato per caso…
Non solo per caso…
No, la casualità fa parte di me, serve a non arrendersi davanti agli imprevisti ma a ottimizzare ciò che accade. Poi sono pure abbastanza cretino e riesco a mettermi in difficoltà da solo.
Le piace il brivido?
È una vita che provo le giuste scuse per perdere, ma alla fine credo sempre di uscirne fuori. E sottolineo credo.
Come si scegli una scaletta quando si è in sei su un palco?
La scaletta è complicata in assoluto, la posizione di un brano, può cambiare totalmente la percezione del brano stesso.
Ogni artista ha i suoi brani assoluti, quelli immutabili. Magari per lei è “Cohiba”…
Ma che siamo matti? (E ride) Se non suono Cohiba il pubblico non va via: ci chiudo i concerti.
Il pezzo ha più di 20 anni, dedicato a Cuba e al “Che”.
Questa età la sento. Per carità, la canto sempre volentieri, mi piace assaporare la reazione del pubblico già dalle prime note, ma ora ho quasi cinquant’anni, e anche io sono un po’ cambiato, sarei ridicolo a interpretare sempre il 25enne rivoluzionario. Insomma, sono invecchiato io non la canzone.
Le dispiace?
Invecchiare con i propri ideali da ragazzo è una delle più grandi utopie, ed è molto complicato; se vivi è normale prendere degli sganassoni, e questi ti cambiano, nascono le disillusione, la voglia di parare il divenire e capire come posizionarsi.
Si diventa pragmatici…
Forse, con un accumulo di momenti di debolezza, piccoli fallimenti. In Acrobati (ultimo disco da solista) l’attualità ho cercato di non tenerla come tema centrale, l’ho relegata al singolo, Quali alibi, ma non oltre.
I fan come la prendono?
Spero bene: non posso rappresentare le istanze più forti, non posso arrogarmi quel diritto, ci vuole sincerità.
Se ripensa a lei sul palco del Primo Maggio, mentre canta “Il mio nemico” e indossa una maglietta con Berlusconi sul petto?
È stato un errore consapevole, un piccolo abuso di potere giustificato dall’attualità politica.
Che tipo di errore?
Non era il mio palco, ero ospite di una rassegna. Però rivendico quel gesto.
Conseguenze?
Per anni non sono più stato invitato, e nell’edizione successiva hanno stabilito la differita di cinque minuti, in modo da controllare altri “sgarri”.
Insomma, lei ha pensato di lasciare la musica…
Ho iniziato nel 1994, mentre le prime composizioni sono di dieci anni prima, quindi a volte la sensazione di non avere più nulla da dire esiste.
Rispetto all’inizio, è cambiato il suo stare sul palco.
È vero, ma non ho mai avuto l’istinto animale da frontman: per non finire soffocato da un senso di inadeguatezza, i primi tempi quasi fingevo di essere qualcun altro.
E poi?
Ho preso consapevolezza, ho cercato e trovato il punto di equilibrio tra la fascinazione necessaria allo spettacolo e l’auto-sputtanamento.
Anche di recente si è sentito fuori luogo su un palco?
Quando ho suonato a XFactor con Max e Niccolò.
Vede il programma?
Mi piacciono le selezioni. Anzi, devo dire a Manuel (Agnelli) che ha fatto male a eliminare un gruppo…
Lei a Sanremo…
Soddisfazione e mal di pancia.
Metaforico o reale?
Reale! Per stare lì devi essere dotato del famoso pelo sullo stomaco, una resistenza non comune allo stress. Lì alcuni artisti si giocano la carriera in appena quattro minuti, puntano tutto sul Festival.
Le piace la sua voce?
Premessa: non ho iniziato con il pensiero di diventare cantante…
E quindi?
Non credo di avere grandi virtù canore, ancora oggi, quando scrivo un pezzo, devo tenere conto delle mie qualità, e calibrare le parole. Però ora mi diverto, sono più libero.
Il giorno dell’addio di Totti ha postato una foto con suo figlio attaccato alla tv…
(Scoppia a ridere) Si vede che in famiglia Totti e il Che sono i due rivoluzionari preferiti.