Nanni Moretti è uno dei più grandi registi italiani. Ha sempre diviso, ma alcuni suoi film resteranno. Di lui Dino Risi diceva: “Mi viene sempre da pensare: scansati e fammi vedere il film”. Una maniera geniale di ironizzare sul narcisismo di Moretti, che gli ha però permesso – nei casi migliori – di elevare la sua storia personale a collettiva. Di generare appartenenza. Nelle ultime settimane, ogni sabato in prima serata, La7 propone i suoi film. Prima della proiezione c’è un’introduzione inedita dello stesso Moretti. Una (bella) idea del nuovo direttore Andrea Salerno. Dieci anni fa sarebbe stato un evento: adesso no. Se ne stanno accorgendo in pochi e a certificarlo sono gli ascolti, che languono tra 1 e 2%.
La stanza del figlio si è fermato all’1,6%, Il portaborse (tre sere fa) all’1,7%. Pochino. Di sicuro la tivù sta cambiando in maniera irreversibile e intercettare i nuovi gusti è sempre più complicato, ancor più se l’offerta è una carrellata di bei film comunque editi e visti (o stravisti). Questi ascolti, peraltro, confermano come La7 somigli ma non sia coincidente con Rai3: ciò che funziona sulla terza rete pubblica, non è detto che funzioni appieno sulla rete di Cairo.
C’è però forse di più, ed è qualcosa che riguarda proprio Nanni Moretti. Non tanto il suo talento, direttamente proporzionale ai suoi spigoli, bensì il suo ruolo: la percezione che gli altri, oggi, hanno di lui. La sua capacità, si direbbe perduta, di generare quell’appartenenza che era massima quando raccontava la fine del Pci (La cosa). Quando cantava Battiato in Palombella rossa. Quando monologava di scarpe e amore in Bianca. Quando omaggiava Pier Paolo Pasolini, sulle note di Keith Jarrett, in Caro diario. Quel Moretti era centrale, fin quasi a elevarsi a coscienza critica e voce maggiore, perché su di lui si specchiavano tutti coloro che si autoproclamavano “splendidi quarantenni” e si sentivano parte di una “minoranza” in qualche modo ipersenziente.
Moretti aveva guadagnato quello status grazie al talento e al coraggio. Un coraggio che lo avrebbe portato all’urlo di Piazza Navona, ai girotondi e ai biopic sul “caimano” Berlusconi. Ora Moretti non appare più centrale. Resta un regista in grado di raccontare i lutti quotidiani (Mia madre) e di anticipare la storia (Habemus Papam), ma la sua – legittima – decisione di rifugiarsi nella casa in collina di pavesiana memoria ha minato il suo ruolo di intellettuale. Un intellettuale ieri critico, quando non iconoclasta, e oggi silente (quando non connivente). Forse Moretti non fa più grandi ascolti perché da lui ci si aspetterebbe ancora qualche urlo, rivolto anche e soprattutto alla sua “sinistra” (o quel che ne resta).
La sua perduta centralità nell’agorà culturale deriva sì dal tempo che passa, e dalle nuove generazioni per le quali Moretti è solo uno come tanti, ma anche da questo suo rumorosissimo silenzio. In una delle sue tante frasi divenute celebri, Moretti rinfacciava agli italiani di “meritarsi” Alberto Sordi. Se avevi vent’anni, ti veniva quasi voglia di dargli ragione. Oggi però Sordi non pare solo enormemente superiore a Moretti come attore, e più in generale come icona cinematografica, ma sembra persino più politico. Altro che “qualunquista”: lo era in Una vita difficile? Lo era ne La grande guerra? Lo era in Un borghese piccolo piccolo, che Moretti si compiacque di sbeffeggiare in un celebre scontro televisivo (da cui uscì malino) con Mario Monicelli moderato da Arbasino? Più che meritarci Sordi, forse oggi ci meritiamo Moretti: questo Moretti. E non è una gran bella sensazione.