Questa è la storia di uno di noi, un perdente, un uomo di talento fuori tempo massimo, in una società che decanta e applaude i vincenti truffaldini, coloro che inventano le mode e le cavalcano prendendole per le corna mentre la vecchiaia è “diventata una malattia sociale, la miseria una vergogna individuale” con “i rampolli delle dinastie industriali italiane cresciute all’ombra di Casse per il Mezzogiorno, Iri e contributi straordinari sempre a fondo perduto”, che dall’altare televisivo puntano “con severità il dito contro i disperati”.
Frank Santaniello è un cronista duro e puro, il protagonista de La genovese. Una storia d’amore e di rabbia (edito da Aliberti), romanzo d’esordio del giornalista del Fatto Enrico Fierro, già autore di libri inchiesta, fra cui La Santa (2007) e O ministro. La Pomicino story (1991). Frank crede ostinatamente nel suo mestiere e nel potere delle parole per risvegliare le coscienze e per raccontare la sua storia deve, giocoforza, tornare indietro nel tempo, far perno sulla memoria; tutto ciò mentre la sua carriera è sull’orlo dell’abisso per aver voluto beffare uno dei nuovi guru dell’Italia del fare, tal Pellegrino Diotallevi, in arte Pel, capace di far fortuna con le macchine usate a Durazzo e con la monnezza che importava dall’Italia e infine era un re del business del cibo, quello povero ovviamente, elogio di un artefatto ritorno alla terra, venduto a peso d’oro alle masse adulanti. Alla stregua di Aristide Bruant, cantore delle anime perdute della periferia parigina – reso immortale dai manifesti di Toulose Lautrec che ne consacrò l’icona, le canzoni sulle guerre dei poveri – Frank, negli anni, ha raccontato le miserie degli sfollati e il business delle ricostruzioni dopo i terremoti, sfidando i potenti – assessori padri che passano lo scettro elettorale ai figli – a viso aperto, facendosi numerosi nemici.
https://www.youtube.com/watch?v=IcNrLtKYUoE#action=share
Fu Peppino Matarazzo, il padrone dell’edicola, a capire per primo che il giovane Frank aveva il dono della curiosità, per lui preparava gratuitamente la mazzetta di quotidiani tutti i giorni, “un privilegio che avrebbe plasmato la sua intera esistenza”. Frank ha un nome straniero, ma è italianissimo, un figlio del Sud. La sua colpa? “Essere un illuso, un idealista” che crede ancora in un mondo pulito; disilluso, subisce gli assalti della “raggia”, non semplice rabbia ma “una ferita dell’animo che nessuna medicina riesca a guarire, perché è un dolore eterno”, una macchia che infanga la purezza di un mondo idealizzato, forse impossibile. Il titolo sibillino allude magari a una donna ligure che conserva un significato per il protagonista ma, in realtà, l’equivoco si risolve a favore di uno dei piatti più importanti e ricchi della tradizione campana, un ragù di carne con sedano, carote, la cipolla stufata e gli ziti spezzati, la cui preparazione richiede parecchie ore di lavoro devoto affinché non si bruci, permettendo, ancora una volta al nostro protagonista, di ricongiungersi con le sue radici, di guardarsi indietro – forse con nostalgia della propria famiglia – ma con la certezza di non essersi mai perso, di non aver mai scelto di tradire la propria missione.
Fierro ha scritto un romanzo denso di nostalgia e “raggia”, in cui le storie la fanno da padrone. Il cuntu ne è il cuore pulsante.
Un viaggio al centro di un uomo pieno di valori, fra i miti che lo hanno segnato, dal cantautore Peppino Gagliardi al suo vecchio direttore, soprannominato Cavaliere nel suo paese natìo, esegeta della “controra” – il tempo del riposo e dei pensieri. Leggendo La genovese non si può non parteggiare per il protagonista, presagendone la fine.
Frank “è un perdente, combatterà tutte le battaglie e lo farà con onore, ma alla fine perderà”, verrà messo da parte, dinosauro cartaceo in un mondo digitale, in cui il precariato – o peggio, il silenzio – è un’arma di ricatto con cui tenere sotto controllo i giornalisti. E se i cani da guardia del sistema vengono addomesticati, ammansiti dalla mano del padrone, Frank non deve deporre le armi finché sarà possibile farlo, senza chinare mai la testa, senza obbedire a nessuno. La genovese è un libro “dedicato a chi è rimasto indietro perché era più avanti degli altri”, pagine in cui immergersi per non perdere mai la direzione, ostinata e contraria.