All’ottava ora di audizione il commissario Giovanni Paglia (Sinistra italiana) sbotta: “Uno dei due non dice la verità, dovevamo fare un confronto all’americana”. Gli fa eco Bruno Tabacci (Centro democratico): “Sembra di sentire le barzellette su polizia e carabinieri”. Renato Brunetta (Forza Italia) chiede formalmente al presidente della commissione una “verifica incrociata”. Pier Ferdinando Casini chiude la seduta e convoca immediatamente (dopo cinque minuti per un caffè) l’ufficio di presidenza.
La prima seduta vera della commissione bicamerale d’inchiesta sulle banche ha superato le più pessimistiche previsioni. L’audizione del capo della vigilanza della Banca d’Italia Carmelo Barbagallo e del direttore generale della Consob Angelo Apponi si è risolta in uno scontro frontale tra le due istituzioni che avrebbero dovuto controllare le banche. E che, come la polemica conferma, non l’hanno fatto.
Apponi ha accusato senza mezzi termini la Banca d’Italia. Gli ispettori di palazzo Koch avevano rilevato già nel 2001 e poi nel 2008 metodi discutibili di fissazione del prezzo delle azioni di Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. I titoli, non quotati in Borsa, erano sopravvalutati del triplo rispetto alle banche quotate grazie a un sistema di definizione del prezzo sostanzialmente arbitraria. Quando Andrea Augello (Idea) chiede ad Apponi perché i soci (che hanno finito per perderci 11 miliardi) non sono stati avvertiti tempestivamente, il dg della Consob risponde serafico: “Il fatto che Bankitalia andasse in ispezione non significa che ribaltasse le informazioni su di noi. Nel 2013, se non sbaglio, riceviamo, in relazione a Veneto Banca, un’indicazione in cui si dice che stanno offrendo azioni a un prezzo troppo alto, che potrebbe compromettere il buon esito del collocamento. Non c’è scritto che il prezzo è fatto secondo procedure più o meno arbitrarie. Questo lo abbiamo saputo solo andando noi in ispezione”. Augello trasecola: “Ho capito bene?”. Apponi conferma: “Non mi risultano comunicazioni di quel genere. Noi non riceviamo i verbali ispettivi di Bankitalia”.
L’ex viceministro Enrico Zanetti (Scelta civica) infierisce: “Lei ci sta dicendo che ciò che Bankitalia sapeva dal 2001 la Consob l’ha scoperto nel 2015, quando i buoi non solo erano scappati ma erano morti di vecchiaia?”. Apponi capisce che non ha spazio per fare il grande accusatore: “Certo che qualcosa non ha funzionato nella collaborazione tra le due vigilanze. Abbiamo due culture diverse, Bankitalia difende la riservatezza, noi la trasparenza”. Il tentativo di dare la colpa ai colleghi di Palazzo Koch è un boomerang. Apponi ha segato il ramo su cui stava seduto insieme a Barbagallo.
Il capo degli ispettori aveva tentato per ore, eroicamente, di addormentare la commissione con l’abituale impasto di segreti e bugie. Il copione è noto. Gli ispettori hanno pochi poteri e per banchieri disonesti è stato facile prendersi gioco di loro, ma quando hanno scoperto irregolarità le hanno “tempestivamente” segnalate ai magistrati. In evidente difficoltà, l’uomo di fiducia del governatore Ignazio Visco ha cercato di impietosire i commissari (“se diciamo ai risparmiatori le cose coperte da segreto ci arrestano”) e di intenerirli con una vaga autocritica: “Non vogliamo dare l’impressione che ci autoassolviamo, noi siamo qui per dare informazioni sui fatti, a voi stanno i giudizi. Se ci sono stati molti errori, individuiamoli, parliamone”. Ma quando i commissari lo incalzano sui molti errori Barbagallo va nel pallone. Qui lo soccorre la liturgia della commissione, che è ancora nella fase di ricognizione generale, per cui gli auditi non hanno la veste formale di testimoni e sono liberi di mentire. Il passaggio più difficile dell’audizione ha riguardato la storia delle pressioni sui vertici di Veneto Banca perché si consegnassero alla Popolare di Vicenza di Gianni Zonin.
Vincenzo Consoli, allora amministratore delegato di Veneto Banca e oggi imputato dei reati di ostacolo alla Vigilanza e aggiotaggio, ha detto ai magistrati che alla vigilia di Natale del 2013 proprio Barbagallo gli ingiunse di parlare immediatamente della fusione con Zonin. Che a sua volta gli disse di avere alle spalle un ferreo accordo con il governatore Visco. Barbagallo minimizza le accuse: “Ricordiamoci che stiamo parlando di indagati. Sono persone che si devono difendere, immagino che dicano tante cose, bisognerebbe sapere esattamente che cosa dicono”. Ma lui sa perfettamente che cosa dice Consoli, perché è contenuto in un verbale di interrogatorio nel processo in cui Bankitalia è parte lesa. In ogni caso, taglia corto Barbagallo, “non è vero, non è scritto da nessuna parte”. Veramente da qualche parte è scritto: Carla Ruocco (M5S) gli fa notare che il racconto delle sue pressioni perché Veneto Banca si consegnasse a Zonin è stato messo a verbale dal cda di Veneto Banca nel gennaio 2014, quando Consoli non era indagato ma anzi perfettamente in sella. Quel verbale è stato pubblicato già due anni fa dall’Espresso. Ma forse Barbagallo non legge i giornali.
La sua ostinata autodifesa alla fine irrita i commissari di tutto l’arco parlamentare. Daniele Capezzone si dichiara “totalmente insoddisfatto” e chiede beffardo a Barbagallo se “ha voluto fare un test per vedere se la commissione è sveglia”. Gianni Girotto (M5S) dà un colpo sotto la cintura: “Banca d’Italia provvederà spontaneamente a risarcire i gravissimi danni che ha provocato o si difenderà strenuamente nei giudizi che stanno per essere avviati nei suoi confronti contando sui propri appoggi politici per influenzare i magistrati che saranno chiamati a valutarne l’operato?”. Il presidente Casini lo sgrida: “Con queste domande ci rendiamo ridicoli”.
Il sigillo politico alla giornata lo danno alla fine i due commissari renziani Matteo Orfini e Andrea Marcucci. Non hanno partecipato con gli altri banderilleros alla gara alla domanda più cattiva. Ma hanno diffuso due dichiarazioni identiche, come se gliele avesse dettate un regista: “Questo è solo l’inizio”. Come dargli torto?