Se la Sicilia come laboratorio degli equilibri nazionali è un luogo comune largamente infondato (Rosario Crocetta, per esempio, resterà un unicum, imitabile soltanto da Crozza), proviamo lo stesso a ricavare dal risultato di domenica una breve guida alla politica che si preannuncia.
Primo: dopo il naufragio siculo del Pd, l’Italia tripolare si avvia a diventare largamente bipolare. Da una parte, il centrodestra che torna a vincere anche se finge di essere unito (copyright Libero). Dall’altra, il M5S che si espande annettendosi un altro pezzo di centrosinistra (il voto disgiunto dei pidini siciliani confluito in massa su Giancarlo Cancelleri).
Quanto a Matteo Renzi, se continua a precipitare lo attende il ruolo di ruota di scorta di un patto del Nazareno a guida Silvio Berlusconi. Nasce il Pd a vocazione minoritaria.
Secondo: il cosiddetto patto dell’arancino rischia di andare di traverso a Matteo Salvini. Che oggi partecipa alla festa per la vittoria di Nello Musumeci ma da comprimario. Alle prese col celebre dilemma di Nanni Moretti: mi si nota di più se vado con Berlusconi lasciando all’ex Cavaliere la guida della coalizione eventualmente vincente? O se corro da solo ma da probabile perdente? Alla fine, vedrete, digerirà anche l’arancino. Che val bene una poltrona ministeriale.
Terzo: i Cinque Stelle e i voti nel congelatore. Ovvero: ha senso vincere le elezioni per poi restarsene confinati all’opposizione? È chiaro che in campagna elettorale continueranno a battere sull’autosufficienza del MoVimento che non scende a patti, che non fa alleanze con la vecchia e squalificata politica eccetera.
Ok, ma se dopo tanta fatica Luigi Di Maio dovesse ricevere l’incarico di governo, non essendo probabilissimo che si rechi al Quirinale con in tasca la maggioranza assoluta, a qualche straccio di coalizione dovrà pure piegarsi. Con la Lega di Salvini sembra altamente improbabile (vedi il punto due). Non impossibile un accordo con la sinistra di Pier Luigi Bersani, prodigo di aperture verso quella che ha definito “la forza di centro argine alla deriva populista”. A patto, s’intende, che Mdp entri in Parlamento con i voti sufficienti alla bisogna.
Invece, l’ipotesi grillina di cercare di volta in volta nelle Camere i voti necessari a governare appare piuttosto precaria se non addirittura bizzarra. Insomma: se gli elettori ti concedono la fiducia per governare, quei voti non stanno lì ad aspettare in eterno e prima o poi ti mollano.
Quarto: la condanna dei Democratici impiccati a Renzi. Dopo l’exploit del 40 per cento alle Europee 2014, lo statista di Rignano ha inanellato una serie di sconfitte che neanche il Benevento calcio: perse Roma e Torino, perso il Referendum, persa la Sicilia. In soli tre anni il Pd ha dilapidato un terzo del suo (ex) elettorato e ora festeggerebbe il 26% con le luminarie di Santa Rosalia. Quanto alle alleanze centriste siamo alle comiche visto che l’alternativa Popolare di Angelino Alfano è ormai ridotta allo stato gassoso. E che nella disperata ricerca di foglie di fico moderate si pensi di richiamare dalla pensione Pier Ferdinando Casini, la dice lunga sullo smottamento mentale dei renziani.
Il leader comunque resterà lui: ha sotto controllo il partito delle tessere e sa di non avere alternative credibili. La sinistra interna caldeggia un patto con gli scissionisti di Bersani e Speranza. Che non basterebbe comunque a fare maggioranza. Un governo Renzi-D’Alema è un fantasy allucinogeno e di quelli spinti.
Quinto: allarmi son squadristi. Non la Sicilia ma le elezioni nel municipio di Ostia ci raccontano di CasaPound quasi al 10 per cento. Pure a livello nazionale il centrodestra sotto la spinta razzista e xenofoba sta diventando sempre meno centro e sempre più destra estrema. Ora che i “fascisti del Terzo millennio”, così si definiscono senza vergogna, si sentono pronti per il grande balzo a Montecitorio, che facciamo, li aboliamo con la legge Fiano?
Sesto: nel frattempo i premier super partes si scaldano. Non solo Paolo Gentiloni che a Palazzo Chigi siede già ma anche Carlo Calenda, Giuliano Pisapia, Piero Grasso, Marco Minniti sono i nomi più ricorrenti nel caso dalle prossime elezioni non uscisse, come assai probabile, una sicura maggioranza.
Alcuni (Calenda, Pisapia) annunciano di non volersi candidare forse per sentirsi più liberi dai vincoli di partito. Tranquilli, il governo del presidente (Mattarella) s’avanza.