Domani esce in edicola e in libreria Morte dei Paschi (edito dalla nostra Paper First) di Elio Lannutti e Franco Fracassi. Storia di come è stata distrutta la più antica banca del mondo, i misteri (e le morti) che circondano lo scandalo. Pubblichiamo una sintesi di come nacque l’acquisto scellerato di Antonveneta, l’origine del disastro. In attesa delle cronache giudiziarie, il quadro è la spiegazione limpida del perché si distrusse la banca e perché nessuno disse nulla.
Nel 2005 Abn Amro era la più grande banca olandese e l’ottava in Europa per capitalizzazione (68 miliardi e 300 milioni). Poi, sempre nel 2005, acquistò Antonveneta, strappandola ai “capitani coraggiosi” amici dell’ultracattolico presidente della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Da quel momento tutto cambiò. Nel giro di un anno la banca si trovò in gravi difficoltà. E così, nessuno si stupì quando, il 19 marzo 2007, la britannica Barclays annunciò di aver avviato una trattativa investendo 67 miliardi. Ma ai tavoli di poker c’è sempre chi rilancia. Il 29 maggio, un consorzio formato dalla prima e dalla seconda banca europea (Banco Santander e Royal Bank of Scotland) e dalla prima banca belga (Fortis), annunciò un’offerta di acquisto di Abn Amro, valutandola 71 miliardi e 100 milioni. Una cifra esagerata: prezzo maggiorato del 54,6% sui valori di mercato. Santander avrebbe messo 19,9 miliardi. Era metà luglio e i soldi andavano trovati entro pochi mesi. Rbs e Fortis avevano avuto l’ok degli azionisti. Diversa era la situazione della banca spagnola. Ricca quanto l’intero Prodotto interno lordo della Spagna è guidata dal 1909 da una famiglia così cattolica da essere il punto di riferimento della potentissima e ultra conservatrice organizzazione massonica: l’Opus Dei. All’epoca dei fatti, a capo di Santander sedeva Emilio Botin. Aveva due fari nella vita: fare tanti soldi e servire il potere all’interno delle mura vaticane, anche se spesso “era il Vaticano a chinarsi al cospetto del suo potere”, come spiegò a El Paìs il cardinale di Milano, Carlo Maria Martini. Nessuno dei tre acquirenti aveva denaro da spendere. Ma nel poker si può bluffare. E così l’8 ottobre 2007 diedero il lieto annuncio: l’Opa su Abn Amro era andata a buon fine, ma i pagamenti e i passaggi di azioni erano ancora lontani.
Nella trimestrale di Santander al 31 marzo, si legge la cifra che la banca spagnola avrebbe dovuto investire (i 19 miliardi). Ma come faceva un “rendiconto” a riportare dettagli di un’operazione che sarebbe dovuta avvenire il 29 maggio? Nella stessa relazione si legge: “Santander reperirà una prima tranche di 9 miliardi con un aumento di capitale”. I restanti quasi 11 miliardi erano stati derubricati a “operazioni di bilancio” e di “vendita di asset”. Un altro miliardo e 200 milioni sarebbe stato ottenuto vendendo la quota di Intesa-San Paolo (1,79%) detenuta da Santander dopo la fregatura rimediata con la fusione tra Banca Intesa e San Paolo. E gli altri 13? Non fu il genere di problemi che destò preoccupazione negli uffici di Basilea del Financial Stability Forum (Fsf). I funzionari e il loro presidente (Mario Draghi), non espressero nemmeno una perplessità sull’immensa e sconclusionata fusione. Eppure, il Fsf era stato creato proprio per impedire operazioni così. In quella operazione c’era solo un “ma”, rappresentato da Antonveneta. Al momento dell’acquisto da parte di Abn Amro, era venuto fuori che la banca padovana stava saltando. All’inizio del 2007, la filiale di Padova di Bankitalia aveva scritto alla sede centrale che Antonveneta era un buco nero. L’acquisizione aveva messo nei guai Abn Amro e Santander rischiava di fare la stessa fine, cosa che Botin voleva evitare. E per questo aveva un asso nella manica. Due anni prima, Botin aveva cercato per due volte di scalare una banca italiana: la Popolare di Bergamo e, soprattutto, San Paolo. Il premier Romano Prodi e il banchiere Giovanni Bazoli gli avevano fatto saltare i piani. Santander aveva il 10% di San Paolo. Con la fusione con Intesa, le azioni persero valore (8 miliardi). Santander andava risarcita. E così, Botin passò all’incasso.
All’inizio del 2007, il presidente di Abn Amro Rijkman Groenink aveva proposto a Giuseppe Mussari del Monte, la fusione tra i due istituti: non se ne fece nulla. Eppure, quando Botin si rivolse a Gotti Tedeschi, suo proconsole in Italia per riscuotere da Bazoli il credito promesso questi non ebbe esitazioni a indirizzarlo verso Rocca Salimbeni e il suo dominus. E Mussari decise di trattare. Cos’era cambiato? L’offerta era arrivata non più da un olandese, bensì da un gruppo di potenti italiani legati al Vaticano e alla politica, quella che contava. Mussari colse al volo l’occasione. Era ambizioso. Aveva tre obiettivi: la presidenza dell’Abi, la presidenza dell’Istituto opere religiose (lui che era ateo), il ministero dell’Economia. Al governo c’erano Prodi e il centrosinistra. Avrebbe reso felici i banchieri della finanza cattolica, alcuni dei quali molto influenti nell’Abi, come Giovanni Bazoli. Avrebbe reso felice l’Opus Dei, aprendogli le porte del Vaticano, facilitandogli la candidatura alla presidenza dello Ior. Avrebbe reso felice Giulio Tremonti, tenendosi aperta la possibilità di ricevere una poltrona nell’eventuale nuovo governo. Avrebbe reso felici perfino Prodi e i vertici del Pd, tanto innamorati delle fusioni bancarie.
Andrea Orcel di Merrill Lynch era l’uomo chiave della trattativa (aveva gestito le più grandi fusioni bancarie in Italia, ndr). In conflitto d’interessi, visto che Orcel rappresentava Abn Amro nella trattativa con Rbs, Fortis e Santander.
La stranezza più macroscopica fu però la totale assenza di una due diligence su Antonveneta da parte di Mps. Si stavano spendendo miliardi per acquistare un bene di cui non si conosceva lo stato. Mussari si stava imbarcando nell’operazione senza conoscerne il motivo. “In nessun momento mi spiegò quale era il suo interesse per acquisire Antonveneta”, ha dichiarato Botin ai pm senesi. “Non ci furono riunioni con i rappresentanti di Mps per negoziare la vendita di Antonveneta, ma si trattò tutto per telefono, due o tre volte con Mussari”. Alla seconda o terza telefonata Botin disse a Mussari: “Nove miliardi. Risposta entro 48 ore. Prendere o lasciare”. A questo punto il presidente del Monte, secondo quanto ricostruito dalla Procura di Siena, “tentò di abbassare il prezzo, ma lui era consapevole di essere in una posizione ottima per mantenere il prezzo, dato l’enorme interesse che il compratore aveva”. Tre telefonate al buio in due giorni (in che lingua, Mussari parla solo italiano?) per decidere di sborsare oltre 9 miliardi per una banca che nominalmente la stessa Santander avrebbe comprato a 6,6.
Nella testimonianza resa ai pm dall’allora ad di Antonveneta, Pierluigi Montani, si legge: “Dopo che Mussari e Vigni vennero a trovarmi per definire i termini operativi del passaggio, mi rivolsi ai miei collaboratori, che erano stati presenti al colloquio: ‘Voi che cosa avete capito?. Risposta: questi non sanno cos’hanno comprato e non sanno che ci devono dare 7,5 miliardi’”, in riferimento ai debiti accumulati da Antonveneta con Abn Amro. Botin riferì, con esultanza, giorni dopo, agli azionisti di Santander: “Non ci servono più 20 miliardi per Abn ma solo 11, quindi l’aumento di capitale non è necessario”.
Il 17 marzo 2008 Bankitalia diede il via libera. L’operazione “non risulta in contrasto con il principio della sana e prudente gestione”. Firmato, Mario Draghi. Nonostante il prezzo esorbitante sborsato per Antonveneta, gli infiniti bonifici avanti e indietro per il pagamento, i passaggi di denaro senza senso intorno a Mps e la palese stranezza di tutta l’operazione, la Banca d’Italia disse di sì. Eppure la legge obbligava Bankitalia ad accertarsi che l’acquirente avesse spalle solide e che fossero rispettati i criteri di sana e prudente gestione. Perfino dopo che erano state palesemente ignorate, da parte di Mps, le raccomandazioni ricevute nessuno intervenne. Mario Draghi, governatore di Bankitalia, aspirava già a diventare presidente della Bce? Fu per questo che delegò ad altri ogni decisione? Che fece finta di non vedere nulla lasciando che Mussari suicidasse il Monte? Anche dal Fsf ci fu solo silenzio. I simboli di questo disastro furono il direttore generale e il capo della vigilanza di Bankitalia, Fabrizio Saccomanni e Anna Maria Tarantola. La Tarantola, ascoltata dalla Procura di Siena, non ricordò di aver incontrato i vertici di Mps nel corso della trattativa e solo dopo che il pm, Giuseppe Grosso, le ebbe mostrato un appunto scritto sull’agenda del direttore genetaledi Mps Antonio Vigni, in cui si parlava chiaramente di una riunione avvenuta il 22 novembre 2007, la dirigente ammise: “Ricordo l’incontro con il governatore Draghi. Eravamo nel suo ufficio. E per Mps c’erano il presidente Mussari e il direttore generale Vigni. I due illustrarono al governatore l’operazione. (…) Ci raccomandammo con i vertici di Mps di fare per bene l’acquisizione”.
Anche la Consob sapeva. Quando la Finanza sequestrò le carte in un armadio nella sede di Santander, spuntarono anche alcune carte su Antonveneta, con i nomi di chi supervisionò l’affare. Uno di questi era l’avvocato Marco Cardia. All’epoca, suo padre, Lamberto, era presidente Consob.