A diciassette mesi dalla data del 29 marzo 2019, quando è previsto che il Regno Unito esca dall’Unione Europea, nessuno ha ancora la più pallida idea di come sarà la Brexit. La sensazione dominante, sia a Londra che a Bruxelles, è quella di paura dell’ignoto.E la paura non è nuova alla Brexit. È stata la paura dell’ala antieuropea del Partito conservatore a spingere l’ex premier David Cameron a indire il referendum sull’Ue del giugno 2016. Ed è stata la paura della globalizzazione, dell’immigrazione, delle nuove tecnologie a portare il 52% dei sudditi del Regno Unito a votare contro l’Europa e a favore di una non meglio definita determinazione a riprendere il controllo delle proprie frontiere.
Adesso è la paura di avere il leader laburista, il veteromarxista Jeremy Corbyn, come primo ministro che mantiene Theresa May al potere. Per quanto la May si sia ripetutamente dimostrata inetta, i Tories se la tengono perché una Leadership Contest, ovvero la selezione di un nuovo leader, in questo momento rischierebbe di essere rovinosa per un partito dilaniato da lotte fratricide su tutto, dalla Brexit al proprio leader, dalla politica fiscale a quella del commercio estero, alla politica energetica, dell’istruzione e della sanità. Quindi i Tories si tengono una premier zombie, priva di maggioranza e di autorità, non in grado di disciplinare il partito dopo un’elezione generale disastrosa da lei voluta e precipitosamente organizzata, una Premier, infine, incapace di dare una svolta costruttiva a un negoziato sulla Brexit che si è incagliato a Bruxelles.
Ma soprattutto, è la paura della “volontà del popolo” che sta portando i negoziatori di Sua Maestà verso una Brexit da kamikaze. Da timida Remainer qual era prima del referendum sulla Ue, Theresa May si è rivelata una agguerrita Leaver che non permette alcun dibattito trasparente ed onesto sulle conseguenze della Brexit. Già solo per consultare il Parlamento prima d’invocare l’articolo 50 del Trattato Ue, la May ha dovuto essere portata dinanzi alla Corte Suprema del Regno Unito, che le ha dato torto. Adesso s’incaponisce a condurre la trattativa tenendo all’oscuro sia il Parlamento che il popolo. Il governo di Sua Maestà ha realizzato un’analisi dettagliata delle conseguenze della Brexit per 58 settori che coprono l’88% dell’economia: dall’aviazione civile all’industria automobilistica, passando per la sanità e l’istruzione. Ebbene, tutti e 58 gli ‘studi d’impatto’ sono tenuti segreti e nemmeno il Parlamento ha avuto modo di consultarli. Invocando la “volontà popolare”, il primo ministro e il suo manipolo di Brexiters, compresi il ministro per la Brexit, David Davies, e il ministro degli Esteri Boris Johnson, continuano a mantenere all’oscuro di tutto chi gli si oppone. Come sotto il regno del terrore della rivoluzione francese, di quella russa o della rivoluzione culturale cinese, chi si oppone al governo è tacciato di essere un nemico del popolo, con tanto di esposizione alla gogna delle prime pagine dei tabloid londinesi tipo il Daily Mirror, o peggio ancora con promesse di ricompensa a chi lo catturi “vivo o morto”, come è capitato a Gina Miller, la paladina di un voto parlamentare prima che fosse invocato l’articolo 50.
Purtroppo la paura, come policy e come tattica negoziale, non porterà mai a un risultato ragionevole. La minaccia di esser pronti a uscire senza un accordo, la No Deal Brexit, finirà per avverarsi, con pesanti conseguenze per l’economia, il trasporto aereo, l’industria, i cittadini europei residenti nel Regno Unito e quelli britannici residenti nel resto dell’Ue. Basti, a titolo d’esempio, un dato recente pubblicato dalla Banca d’Inghilterra: nel caso di una No Deal Brexit, la City di Londra perderebbe in poco tempo più di 75.000 posti di lavoro nel settore della finanza, per non parlare di tutto l’indotto.
Ma guardiamo oltre la City: un’uscita precipitosa del Regno Unito dall’Ue, senza un accordo negoziato, comporterebbe danni più gravi e immediati. Senza un accordo, tutti i voli tra il Regno Unito e i 27 sarebbero a rischio. Per essere chiari, si tratta di 135 milioni di passeggeri l’anno ovvero 370.000 al giorno. Quasi quattro milioni e mezzo di persone, tra cittadini Ue residenti nel Regno Unito e britannici nei rimanenti 27 Paesi membri, si troverebbero in una situazione d’incertezza legale in merito ai diritti fondamentali da loro acquisiti, come il diritto alla residenza, al lavoro o all’assistenza sanitaria. La sterlina continuerebbe a svalutarsi con il relativo rischio d’inflazione e impennata dei prezzi dei beni e dei servizi. Le esportazioni e le importazioni tra il Regno Unito e i 27 rischierebbero d’incepparsi.
Nei porti del Regno Unito, infatti, si passerebbe da un giorno all’altro dagli attuali 55 milioni di pratiche doganali a più di 255 milioni. Si formerebbero file mostruose di Tir carichi di prodotti deperibili oppure indispensabili per catene di montaggio Just in Time che non potrebbero più funzionare, come le catene dell’industria automobilistica o dell’aeronautica. Inoltre, le otto centrali nucleari del Regno Unito, che soddisfano il 20per cento del fabbisogno energetico del paese, non potrebbero essere più rifornite di materiale nucleare al di fuori dell’Accordo Euratom. Il Regno Unito potrebbe rivivere il blackout già sperimentato durante l’offensiva aerea tedesca della Seconda Guerra mondiale o durante gli scioperi dei minatori degli anni settanta.
In breve, non c’è né una Brexit morbida né una Brexit dura, ma semplicemente una Brexit stupida, come l’ha definita Michael Bloomberg, aggiungendo che ci avrebbe pensato due volte prima di reinvestire nel Regno Unito, se solo avesse potuto prevedere la Brexit.