Appuntamento nel centro di Roma: c’è sciopero. Caos, auto in tripla fila, vigili arresi. Massimo Giletti è in maglione, maglietta, giacchetto, casco sotto il braccio; cammina con passo da velocista, si alza sulle punte per controllare la situazione. “Si muove in macchina?” Sì. “È pazzo”. Lei è adrenalinico. “Dice? Non lo so. Forse sono solo concentrato, non vedo l’ora di debuttare con Non è l’Arena (questa sera alle 20.30 su La7): ci penso da mesi, aspetto questo momento come poche volte nella mia vita. Finalmente”.
Ci sediamo da qualche parte?
No, no, va bene la macchina, stiamo più tranquilli, si infili in quel buco, sterzi, non diamo fastidio (Giletti è talmente “concentrato” da dare anche le indicazioni su come manovrare l’automobile).
Giovedì in conferenza stampa le sono uscite le lacrime…
Non me lo aspettavo, pensavo che il tempo avesse maggiormente rasserenato il mio animo. Sbagliavo. Evidentemente quando riavvolgi il nastro e ripercorri la tua vita… non sempre puoi calcolare tutto.
In questo periodo si è sentito solo?
A volte è capitato, ma credo sia normale quando stravolgi la tua quotidianità: lasciare la Rai mi ha impressionato, in viale Mazzini sono professionalmente nato e cresciuto, ho nella testa ogni sfumatura di quei corridoi, pure i suoi odori.
Giovanni Minoli ha raccontato di quando le ha fatto passare l’intera notte sotto casa di Andreotti…
Non proprio tutta. Mi ero informato sugli orari della messa, sapevo che la prima era alle sei del mattino, la seconda alle sette, quindi arrivai alle cinque meno un quarto, in motorino, e insieme all’operatore.
A un certo punto, ecco il Divo…
E stranamente ero solo nonostante l’avviso di garanzia ricevuto. Oltre a me, dopo, anche Gian Antonio Stella e Paolo Guzzanti: presi le sue ultime parole prima di una sorta di silenzio stampa per via dei problemi giudiziari.
A tu per tu con Andreotti.
I suoi occhi, lo sguardo tagliato, sono una delle immagini del mio archivio mentale.
Insomma, è sotto ansia da debutto…
Di solito non sono teso, ma questa è realmente un’altra storia, una diversa consapevolezza, una differente avventura con accenti in grado di moltiplicare le emozioni.
Sotto pressione.
C’è la responsabilità di essere un acquisto serio in una società nuova, più specializzata nell’informazione e che con me sta cercando di aprire nuovi varchi.
Con un bagaglio di quattro milioni di spettatori.
Di pubblico Rai. Ora posso solo sperare di traghettare parte di quei numeri su La7; nella vita uno deve avere coraggio, altrimenti è finita.
Non sempre chi è andato via dalla Rai ha ottenuto lo stesso successo.
È sempre complicato, ho visto la fatica iniziale di Floris… Comunque se non volevo azzardare, potevo restare in Rai: mi avevano offerto un varietà in prima serata.
L’ha stupita la vicenda della Gabanelli?
No, perché conosco Milena. Forse sono loro a non sapere bene chi è, come non avevano capito chi sono io.
Video di Alberto Sofia
Conoscere o non volere conoscere?
Forse sono abituati a lavorare con i quaquaraqua, con gente che si accontenta di un posto di prestigio o di denaro. Una che è andata in Jugoslavia appresso alla tigre Arkan non si accontenta di due lustrini e un po’ di soldi.
Lei è stato in Iraq…
Sono arrivato a 200 metri dall’Isis e ho intervistato due miliziani appena catturati.
Dicevamo: tutta la sua esperienza è in Rai…
E pensavo fosse meglio avere più padroni che uno solo.
Tradotto…
Sono cresciuto in un’azienda pluralista, con delle grandi teste pronte a dialogare. Oggi mi sembra si punti a una normalizzazione, che passa attraverso dei rischi.
Con risultati non eccellenti.
Ho fatto una scelta di non commentare i dati attuali: sono talmente tanti i programmi che non funzionano. Però mi domando: ma chi pagherà per questi errori? Se fosse una società privata, qualcuno ne avrebbe risposto.
Tracollo economico.
È tutto collegato: immagine, punti di share, pubblicità.
Il suo passaggio dalla realtà pubblica a quella privata.
Intanto è stato decisivo Urbano Cairo: mi ha incontrato, parlato, il confronto è proseguito a lungo e con la giusta pazienza. Mi ha colpito il dialogo.
In Rai non dialogava?
Certo. Però dopo la trasmissione ero quasi costretto a staccare il cellulare: venivo assalito dalle telefonate di dirigenti.
Complimenti o proteste?
Un giorno un direttore generale mi disse: “Non riesco a capire: lei da che parte sta?” E io: “Grazie per il complimento…”. Comunque le pacche sulle spalle arrivavano il lunedì alle dieci del mattino, dopo aver letto i dati dell’Auditel: per undici volte abbiamo raggiunto livelli più alti del serale di Rai1.
Momenti difficili?
Quando tocchi i reali poteri dai fastidio, altrimenti non saremmo oggi qui a parlarne.
In particolare, in quale occasione?
Ho avuto fastidi quando mi sono occupato dei limiti sulla ricostruzione post-terremoto: un episodio così palese era ed è un problema per questa classe politica.
Quattro milioni di spettatori bisogna saperli gestire?
Si impara, Rai1 non è una rete qualsiasi, è la più importante d’Italia: la libertà di Rai2 o Rai3 non la puoi ritrovare; uno deve rivestire anche le proprie reazioni, vuol dire maggiore responsabilità
Perché la seguono?
Chi guarda ha fiducia in te, e bisogna lavorare sulla credibilità, essere disposti a lasciare perdere, o a rallentare pur di arrivare alla qualità giusta.
Ha raccontato che il suo gruppo di lavoro non l’ha mollata, sono ancora con lei.
Siamo pochi, non raggiungiamo i quindici: basta una febbre condivisa e sono cavoli. Ma non smetterò mai di ringraziarli, il loro gesto è stato commovente.
Del direttore di Rai1, Mario Orfeo, si definiva amico…
Amico è una parola esagerata, con lui ci siamo dimostrati sempre un forte rispetto; evidentemente in certi momenti si plana su qualunque atteggiamento o rapporto.
Come ha passato l’estate?
Ho gestito una tempesta emotiva veramente faticosa, ne sono uscito, ma questa esperienza mi ha segnato,
Ha pianto altre volte?
Sì, soprattutto quando ho pensato alle persone che non avrei più rivisto in Rai.
Ha iniziato presto a lavorare…
Ma non come giornalista. Inizialmente sono andato in Inghilterra, poi assistente universitario in Italia, quindi un’avventura in Brasile insieme a una merchant bank, infine due anni in azienda con mio padre…
Alla catena di montaggio?
Quando entrai il primo giorno, lui mi disse: ‘Prendi una sedia e vieni nel mio ufficio’. Invece finii in mezzo agli altri lavoratori: se non capisci e vivi la vera fatica, non puoi comandare.
Era una vecchia regola di casa Agnelli…
Giocavo a pallone con Giovannino. Una volta abbiamo preso insieme un treno per Genova; mi stupii quando acquistò un biglietto di seconda classe: ‘È fondamentale conoscere le persone, e sarò sempre grato a mio padre per l’educazione che mi ha trasmesso’, le sue parole. Anche oggi viaggio quasi sempre così.
In carriera ha presentato programmi d’intrattenimento e informazione…
Non è stato semplice arrivare dove volevo. Mi hanno anche offerto la conduzione di un reality, ma ero consapevole che sarebbe stata una strada senza ritorno.
Però ha condotto “Mezzogiorno in Famiglia”.
Non lo rinnego. Allora fu Minoli a mandarmi e per sostituire Cecchi Paone; ero contrario, la mia idea era quella di girare il mondo come giornalista.
Però…
Ho imparato. Ad esempio Michele Guardì mi ha insegnato a condurre in piedi, che è una faccenda molto differente rispetto al telegiornale. Tenere quattro milioni di persone collegate passa anche attraverso la fisicità che sai esprimere.
Quindi “Mezzogiorno in Famiglia” le è servito…
È stato come entrare in un mondo che non mi apparteneva, ma che mi ha liberato da certi schemi.
Come una vittoria calcistica fuori casa…
Lo snobbismo non aiuta, bisogna sporcarsi le mani anche in settori che idealmente non ti appartengono. Altrimenti potevo restare nella stanza di mio padre.
Suo padre cosa fa, oggi?
Ha 89 anni e manda avanti l’impresa. Nessuno di noi fratelli ha seguito la sua strada.
Dispiaciuto?
Nella sua anima ha perso qualcosa, ma lui è uno molto duro, non dimostra facilmente le emozioni.
La sua altezza e il suo fisico l’hanno protetta dai complessi?
Non lo so, però se mi guardo indietro ripenso a una lunga serie di scontri: pure con lo stesso Giovanni (Minoli) o Michele (Guardì) non è sempre andato tutto in letizia; non sono mai stato un tipo semplice, le mie idee le ho sempre portate avanti.
Gioca a poker?
Non sono un granché, troppo diretto, non so bluffare.
Però all’”Arena”, in quel faccia a faccia feroce con Berlusconi, sembrava una mano d’azzardo…
Forse è stata più una partita a scacchi: lui sapeva di non poter andare via, io ero quasi certo che alla fine sarebbe rimasto.
Un momento delicato…
Dietro le quinte mi suggerivano di lasciar perdere, di stare zitto. Però quando è finita la puntata, Berlusconi mi ha stretto la mano: ‘Complimenti, dovevo giocare la mia partita’. E l’ha giocata. Io lo avevo attaccato duramente, la frase ‘non siamo da Barbara D’Urso’ lo colpì.
La D’Urso poi si è fatta sentire?
Non ha tempo, con tutti i programmi che conduce… Va bene così. E sta stappando champagne da quando non sono più a Domenica in.
Adesso la sfida è con Fazio.
È giusto alzare l’asticella della competizione, anche se magari ci vai a sbattere. Comunque la competizione non è contro Fazio, ma contro chi non voleva più farmi parlare.
Ha un procuratore?
No, sempre solo. E sto bene così. Se fossi stato un altro avrei chiamato mio zio, direttore della Cir di De Benedetti, e gli avrei chiesto una mano per trovare un posto.
Ha frequentato scuole private?
Pubbliche. I miei d’accordo.
Alle superiori ha mai occupato?
No, ed erano gli anni difficili delle Brigate Rosse, anni durissimi. In realtà mi sono imbattuto in alcuni scontri con i gruppi più intransigenti: mi ricordo che contestai un operaio della Fiat dopo la marcia dei quarantamila. Successivamente venne arrestato: era un brigatista.
Altre lotte studentesche?
Non si trovavano le firme per una lista del Partito liberale, accettai di dare una mano anche se non ero dei loro. Poi un amico di Lotta continua mi salvò dalle botte.
Diplomato con?
56 su 60 e poi 110 all’università.
Era considerato un fighetto?
Pretendevo solo la libertà di andare a scuola.
Quindi scontri fisici…
È capitato (Guarda l’orologio, “Ho le ultime prove”).
Manca poco alla diretta…
Questo lavoro lo amo, ma è bene non assolutizzare.
Vuol dire?
Se non dovesse andare posso lasciare, so che la vita è anche altro, magari apro un’attività a Cuba, uno dei posti più affascinanti mai visti.
Precarietà.
Storicamente il conduttore crede di essere Dio perché appare, è chiaro che nel momento in cui non appare più, crolla l’idea. E lo subisci psicologicamente.
Lei si sente?
Vescovo.
Narciso.
Chi è impegnato davanti a una telecamera, deve avere una componente narcisistica, chi non lo ammette dice una bugia… forse è anche necessario esserlo.
Passaggio dai capelli neri a quelli bianchi…
(Ride) Berlusconi mi disse: ‘Lei sbaglia, si tinga’. Non sono a Mediaset. ‘I miei li obbligo’.
Quindi?
È un senso di verità: se coloro i capelli alla fine mento.
Cosa ne pensa del gossip su di lei?
Fa parte di questo sistema, lo accetto. Forse può turbare le donne al mio fianco.
Magari a quelle donne piaceva…
Non lo so, ma sono single, ci sta.
Alcune si avvicinano solo perché è famoso?
Ne sono certo. Certissimo.
Fastidio.
No. Sta a te, con la tua testa sapere che da quella donna non puoi avere nulla, o solo quello che vuoi tu, non l’amore.
Il suo stipendio.
Intanto sono stato il primo e unico a dichiararlo in trasmissione su Rai1 e davanti a Renato Brunetta (450 mila euro lordi): chi è pagato dal cittadino, non può nascondere certe informazioni.
Ora è nel privato.
Infatti sono cavoli miei. Trovo però che mettere dei tetti del genere è una follia, così vanno in Rai solo i servi o gli incapaci. I migliori vanno pagati.
Senza limiti?
No, con un tetto ma ragionevole (Riceve una chiamata. “Sì, arrivo”).
Lo scoop su Tulliani è un bell’assist per la serata di debutto.
Dietro c’è molto lavoro, lo abbiamo studiato, compreso il piano psicologico, sapevamo dei suoi errori passati, quando ha cercato di far arrestare un collega a Montecarlo. Fortuna? Serve, ma su basi solide.
Il rito prima della diretta.
Questo non glielo dico (Silenzio) Finalmente ci siamo.
Twitter: @A_Ferrucci