Consiglio caldamente ai politici italiani la visione del nuovo programma di Tv2000 Padre Nostro, in particolare dei primi minuti di ogni puntata, dedicati all’intervista che il conduttore, il prete Marco Pozza, ha di volta in volta realizzato con papa Francesco. La visione sarebbe utile per i politici, perché potrebbero finalmente apprendere gli enormi vantaggi strategici che derivano dallo “stile tenero” che papa Francesco diffonde da anni e che è stato, da subito, la ragione principale della sua immensa popolarità.
L’intervista è un capolavoro di strategia comunicativa: innanzitutto, i due dialogano in una stanza spoglia, con un bel tappeto, ma quasi senza arredi, a suggerire la semplicità e la frugalità della vita di chi la occupa in quel momento. Don Marco e il pontefice sono poi molto vicini e posti uno dinanzi all’altro, allo stesso livello e senza nessun oggetto che li separi. L’unica differenza sta nella forma della sedia, perché quella di Francesco ha i braccioli, mentre quella di don Marco ne è priva. Il giovane sacerdote non è vestito da prete, ma da trentenne “figo”: jeans, giacca bianca con toppe, scarpetta da ginnastica elegante. E soprattutto dà del tu al papa. Come se fossero in famiglia, come se quell’uomo anziano vestito di bianco seduto di fronte a lui fosse un suo familiare, diciamo un nonno autorevole, con tante cose da raccontare al nipotino che lo guarda incantato e sedotto dalla sua saggezza.
Nel merito, in quei dieci minuti inaugurali di ogni puntata di Padre Nostro, Francesco pronuncia delle frasi di una sconcertante banalità, puro buon senso, un predicozzo che starebbe bene in bocca a un parroco di campagna: nessuna rivelazione teologica sconvolgente, nessun pensiero filosofico profondo, niente che faccia davvero mettere in moto il cervello. Solo parole semplici, concetti poveri e stringati, perfetti per la comunicazione in tv. E con l’aggiunta di un elemento che un parroco di campagna non userebbe mai, ma che nella comunicazione di un divo mediatico quale è il papa argentino non può e non deve mai mancare: il racconto autobiografico, la narcisistica narrazione di qualche episodio edificante della propria vita. Il ritorno a casa con il papà dopo l’operazione alle tonsille da bambino, l’addormentarsi durante la preghiera o l’incontro con una fedele in Argentina.
Tutti eventi insignificanti e ordinari se non fossero parte della vita di una star. E se non fossero narrati con quel tono dolcissimo, da quella voce così calda, da un uomo che, a vederlo, è l’incarnazione della mitezza e della bonomia latina, allegro ed ottimista, ma al tempo stesso determinato e avveduto. È il nonno che tutti vorremmo avere, da cui vorremmo farci abbracciare, coccolare, ascoltare. Il nonnino che, forse pensando a se stesso più che a Dio, ci parla dell’importanza di avere un padre che ti ama e che ti accoglie sempre, un anziano signore dalle cui parole ci faremmo trasportare in mondi lontani nel tempo e nello spazio.
Bergoglio è un genio della comunicazione politica. Perché nella realtà, molto diversa dalla fiction televisiva, non fa il nonno, ma il capo di Stato e il monarca assoluto di un’organizzazione con centinaia di migliaia di funzionari e una pletora di gerarchi, interessi economici e politici giganteschi, rapporti diplomatici quotidiani con capi di Stato e di governo.
Poco prima di indossare i panni del nonno innocente, Francesco avrà casomai espresso il suo sostegno ad una delle tante dittature africane delle quali la sua organizzazione è sostenitrice e complice o dialogato con gli amici di Putin sul modo migliore con il quale proteggere i cristiani del Medioriente. Tutte attività ordinarie per un capo politico e che però, nel caso di Bergoglio, non oscurano la straordinaria efficacia della sua comunicazione tanto affettuosa e tenera.
I politici dovrebbero apprendere la lezione perché la sua popolarità è assai più consistente e stabile di quella di tutti i leader “muscolari”, di tutti gli imitatori dell’italico e virilissimo distruttore di reni, dei rottamatori, degli asfaltatori, degli elogiatori del “vaffa”, insomma di tutti quelli che in politica fanno ricorso ad una retorica violenta e metaforicamente sanguinaria. L’unico che, almeno in una fase della sua infinita vicenda politica, sembrava aver compreso il valore comunicativo della mitezza e della bontà, è stato il Berlusconi filosofo dell’amore.
Certo, per un uomo politico è più difficile tener nascosti i contenuti reali del suo lavoro ed è quindi più complicato, per fare un esempio, precarizzare il lavoro dei giovani e un minuto dopo andare in tv a recitare la parte del nonno buono. E la giovin età non aiuta di certo. Una soluzione potrebbe essere quella di dividersi i ruoli: le cose vere, le decisioni strategiche le prende il nipote cattivo, ma al riparo da sguardi indiscreti, mentre in tv ci va il nonno buono, che i voti sa come raccoglierli. Pensateci.