Mille volte si è detto e scritto che Cosa Nostra ha sempre dimostrato, nella sua storia, di essere un vero e proprio sistema di potere criminale. Forte e saldo soprattutto grazie agli occulti patti di scambio con settori del potere politico, del mondo imprenditoriale e della massoneria. Per cui, concentrare tutto esclusivamente sulla figura di un “capo dei capi” – questo o quello fra i tanti succedutisi nel tempo – poteva portare fuori strada, facendo trascurare o persino dimenticare il nodo centrale della questione mafia: la sua potente struttura organizzata, con relativa capacità di torbidi condizionamenti in varie direzioni.
Se un’eccezione può farsi a questo schema, essa riguarda Salvatore (Totò) Riina. Perché protagonista indiscusso di una sorta di mutazione genetica (decisamente in peggio) di Cosa nostra, attraverso un progressivo controllo sull’organizzazione che alla fine divenne egemonico e totalizzante. Con una crudele strategia criminale, Riina cominciò inserendo segretamente una sua persona di assoluta fiducia in ogni “famiglia” mafiosa della Sicilia. Poi, tra la fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta, scatenò a Palermo una “guerra di mafia” che causò più di un migliaio di morti ammazzati. Tutti gli appartenenti a schieramenti contrari ai “corleonesi” di Riina furono eliminati o costretti a scappare.
Nello stesso tempo venne colpita un’infinità di uomini delle istituzioni che per un verso o per l’altro erano considerati – da Riina o dai suoi accoliti – di ostacolo alle loro attività criminali. L’elenco (anche solo per “categorie”) è interminabile: poliziotti, carabinieri, magistrati, giornalisti, politici e imprenditori onesti, uomini della società civile, il prefetto di Palermo. Una vera e propria ecatombe, una decapitazione sistematica e feroce di tutti i vertici istituzionali.
In seguito, quando Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli altri magistrati del pool avviarono contro Cosa Nostra indagini finalmente incisive – con un metodo investigativo-giudiziario nuovo e vincente – Riina reagì con la sua abituale spietata determinazione. Prima pretendendo dai suoi complici, disseminati un po’ dovunque, che si attivassero per “appattare” i processi, affinché potessero concludersi ancora una volta con un nulla di fatto.
Fallito questo obiettivo (per la prima volta nella storia la Cassazione condannò in via definitiva mafiosi anche di “rango”, infliggendo loro pesanti condanne) Riina si vendicò con l’omicidio di alcuni dei personaggi che non erano stati ai patti. E alla fine organizzò le stragi di Capaci e di via D’Amelio, sventrando autostrade e quartieri di Palermo per punire Falcone e Borsellino. La rappresaglia nei loro confronti fu certamente una delle cause che portarono alle stragi del 1992, senza escludere la possibilità che altre ve ne siano state, come sta cercando di accertare il processo sulla “trattativa”.
Arrestato, Riina continuò a esternare in tv, “con la sicurezza non di un uomo che va incontro a tanti ergastoli, ma di un uomo che sa di poter discutere ancora le sue cose con buone speranze” (così Tommaso Buscetta in un libro/intervista di Saverio Lodato). Una di queste esternazioni la fece il 25 maggio 1994 nell’aula della Corte d’assise di Reggio Calabria (in una pausa del processo per l’omicidio Scopelliti), ammonendo il governo di allora a guardarsi da certi magistrati “comunisti” e dai pentiti che costoro manipolavano. Il furbo Riina voleva forse accodarsi alla campagna elettorale del 1994 dove, come ha osservato lo storico Salvatore Lupo, era partito “un attacco, che allora nessuno accettava, alla legge sui pentiti” e un “assalto della magistratura quando (essa) era sulla cresta dell’onda”. Ma questa è un’altra storia.