Le donne lo sanno - Lorenza Carlassare

Lorenza Carlassare: “Una donna sposata non poteva avere interessi scientifici. Del potere non ho mai avuto soggezione” – L’intervista di Silvia Truzzi

18 Novembre 2017

In occasione della morte della costituzionalista Lorenza Carlassare, ripubblichiamo la sua intervista a Silvia Truzzi del 2017, che faceva parte della serie “Le donne lo sanno”. Sicuramente il colloquio più personale tra quelli da noi pubblicati in questi anni.

Ne Il caso Joseph Conrad sostiene che “esser donna è terribilmente difficile perché consiste soprattutto nell’aver a che fare con gli uomini”. Una cosa che Lorenza Carlassare – professore emerito a Padova, prima donna a vincere una cattedra di Diritto costituzionale in Italia – non condivide per nulla: “Ho vissuto in un mondo prevalentemente maschile. E mi sono trovata benissimo!”.

Quando ha capito che si voleva occupare di diritto?

Dopo la maturità mi ero iscritta a Filosofia, ma mi sono pentita quasi subito: la facoltà era praticamente quella di Lettere con pochi esami di Filosofia. Poi un giorno una mia amica che faceva Legge, istigata da mio marito che allora non conoscevo, è venuta a prendermi. Mi ha detto: ‘Perché perdi tempo qui? Sembra una classe liceale, suonano perfino la campanella alla fine delle lezioni. E ci sono solo preti e ragazze occhialute’. In realtà mi ero convinta che Giurisprudenza mi avrebbe aiutata da un punto di vista del pensiero: lì, mi dicevo, il bianco è bianco, il nero è nero… Non sapevo quanto mi sbagliavo! Poi mi sono appassionata moltissimo perché, per fortuna, non era davvero così. Mi sono laureata a 21 anni.

Tempo record.

Mi avevano mandato a scuola prestissimo, da bambina ero una peste…

Ha scelto subito di lavorare all’Università?

Mi sono laureata con 110 e lode e ho vinto il premio per il miglior laureato dell’Università di Padova. E mi hanno dato subito un assegno di ricerca, mi pare che il ruolo fosse ‘assistente straordinario’.

Ha mai pensato di fare l’avvocato o il magistrato?

L’esame di procuratore l’ho dato subito, anche se l’avvocato non l’avrei fatto mai. E anche volendo, non avrei potuto fare il magistrato. Era in vigore una legge del 1919 che escludeva le donne dalla magistratura oltre che da funzioni dirigenziali nella Pubblica amministrazione.

Bidella sì, magistrato no?

Esatto. Nel 1960 fu un’allieva di Costantino Mortati, Rosanna Oliva, oggi presidente della Rete per la Parità, a far cambiare le cose, chiedendo proprio a Mortati di presentare ricorso alla Corte costituzionale contro quella legge perché lei voleva fare un concorso e non poteva. E vinse: la legge venne dichiarata incostituzionale e da quel momento si aprirono alle donne nuove strade (anche se il legislatore fu assai lento nell’emanare le leggi nuove).

Torniamo alla giovane ricercatrice.

Avevo avuto il mio assegno come ‘assistente straordinario’. Dopodiché, a 23 anni, mi sono sposata. Fino alla sera prima del matrimonio ero stata in istituto a correggere tesi di laurea. Il giorno in cui sono tornata, però, mi hanno levato la borsa.

Motivo?

Nel verbale non c’è scritto, ma della riunione in cui la mia rimozione è stata decisa ho avuto un resoconto dettagliato da Gaetano Arangio-Ruiz, internazionalista, che insegnava anche, per incarico, Diritto costituzionale e, indignato, si era dimesso in polemica con quella scelta. La ragione – parole di un professore – era che “una donna sposata non può avere interessi scientifici”. Era il 1954.

E quindi?

Sono rimasta a casa. Ma, avendo bisogno di me, benché fossi incinta di mia figlia Raffaella, mi avevano chiesto comunque di dare una mano agli esami. Sono andata, ero ormai all’ottavo mese, ricordo di aver chiesto un tavolo adeguato… Poi il mio primo marito è morto molto presto e sono rimasta vedova.

Non ci dica che l’hanno richiamata….

Certo: nubile e vedova andava bene, sposata no. Ma ero contenta perché a Padova era arrivato Vezio Crisafulli, un grandissimo costituzionalista, che è stato il mio vero maestro. Prima di fare il concorso da assistente di ruolo mi sono risposata. E di nuovo si è creato un certo clima, non si capiva se potevo restare o no. Mio marito Giovanni (Battaglini, professore di Diritto internazionale, ndr) era un uomo di ferro. Mi aveva detto: ‘Se riesci a farti mandare via un’altra volta non ti guardo più’. Per fortuna prevalse il buon senso. Poi ho preso la libera docenza, dopo di che dovevo fare il concorso a cattedra. Intanto Crisafulli era andato all’Università di Roma ma io non avevo voluto seguirlo. Avevo una bimba piccola e avrei sacrificato qualunque carriera per la mia vita familiare.

È stata comunque la prima donna in Italia a occupare la cattedra di Diritto costituzionale.

Sì, ma dieci anni dopo rispetto a quanto avrei dovuto. Il che ha avuto come unica conseguenza positiva che per molto tempo tutti hanno pensato che io fossi molto più giovane, perché ero entrata in ruolo insieme a colleghi di un’età assai inferiore. Ricordo che in quel periodo c’erano le commissioni multiple. Di me dicevano (me lo riferì un commissario): ‘È più brava, e vincerà di certo. Prima mandiamo avanti quelli meno bravi, che sono più insicuri’. Giuseppe Ferrari, che fu anche giudice costituzionale, una volta mi disse: ‘Signora lo sa, lei sarebbe la prima donna a vincere una cattedra di Diritto costituzionale. È la rottura di una barriera, lei capisce che è una cosa gravissima. Si renda conto che è molto difficile’.

E come si sbloccò la faccenda?

Per caso. Morì un commissario, io ero già stata esclusa per l’ennesima volta. Fu sorteggiato a sostituirlo Serio Galeotti, un professore che conoscevo poco ma che aveva sempre detto che era una vergogna che mi avessero lasciata fuori (era la fine degli anni 70). Sono stata la prima donna e, per un decennio, anche la sola. Così ho vissuto in un ambiente completamente maschile e ho perso la dimestichezza con le donne. Di questo un po’ mi dispiace, anche se ho, egualmente, delle carissime amiche.

I suoi colleghi uomini l’adorano.

È vero, ho sempre avuto la sensazione di essere anche troppo considerata… Per il mio impegno e i lavori scientifici pubblicati sono stata conosciuta e rispettata da tutti loro.

Ha partecipato alle lotte femministe?

No, non mi sono mai sentita diversa e divisa dai maschi. Sentivo di più le battaglie politiche comuni. Sono stata molto fortunata, ho avuto incontri felici e ottimi rapporti con gli uomini, sia nella vita privata che professionale, anche se ho trovato molte difficoltà che venivano dal blocco di potere, non dalle singole persone. Io credo che il movimento femminista abbia svolto un ruolo fondamentale: ha portato l’Italia molto avanti, ha contribuito a far evolvere la coscienza sociale e a spezzare quel blocco di potere: il femminismo è stato fondamentale.

Lei ha scritto molto anche del ruolo delle donne nella Costituente.

È stato un ruolo importantissimo, anche se erano poche, solo 21. Nella Commissione dei 75, incaricata di elaborare il progetto di Costituzione da discutere poi in aula, le donne erano appena cinque: Maria Federici (Dc), Teresa Noce e Nilde Iotti (Pci), Angelina Merlin (Psi), Ottavia Penna Buscemi (Partito dell’Uomo qualunque, da cui presto si dimise). Nilde Iotti lavorò nella Prima sottocommissione (Diritti e doveri dei cittadini), Maria Federici, Angelina Merlin, Teresa Noce nella Terza (Diritti e doveri economici e sociali). Eppure il loro contributo fu significativo. Angela Guidi Cingolani nel suo primo intervento alla Consulta Nazionale – era il ’45 e va ricordato come il primo intervento di una donna in un’Assemblea nazionale in Italia – rivendicando con fierezza il ruolo delle donne disse: ‘Il fascismo ha tentato di abbrutirci con la cosiddetta politica demografica considerandoci unicamente come fattrici di servi e di sgherri. Per la stessa dignità di donne noi siamo contro la tirannide di ieri come contro qualunque possibile ritorno a una tirannide di domani’. Una posizione forte, che continua a essere di straordinaria attualità.

Qualcosa che in particolare dobbiamo a loro?

L’articolo 3 della Carta tutela la persona e la sua dignità (tutti i cittadini hanno pari dignità sociale) e garantisce l’eguaglianza di tutti davanti alla legge senza distinzione di condizioni personali e sociali, razza, lingua religione e di sesso (come volle in particolare Teresa Noce). Ma non basta, aggiunge anche qualcosa che va oltre l’eguaglianza davanti alla legge: le persone nella realtà non sono eguali e, per assicurare l’effettiva eguaglianza, il secondo comma impone alla Repubblica di ‘rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana’. È Teresa Mattei, in accordo con numerose altre costituenti, a proporre l’inserimento della locuzione ‘di fatto’, essenziale per dar senso alla disposizione: di diritto siamo tutti uguali, di fatto no. Gli ostacoli di fatto sono tanti, miseria e ignoranza innanzitutto. Hanno insistito molto sui diritti sociali: qui le donne hanno avuto un peso determinante.

E poi?

In un momento in cui le diseguaglianze crescono a dismisura, troppi sono lasciati nella miseria e nell’abbandono: si parla di ‘reddito di cittadinanza’ quasi fosse una novità da introdurre, dimenticando che, con un altro nome, la Costituzione già lo prevede, all’articolo 38. Il 10 settembre 1946 Angelina Merlin formula questa proposta: ‘Lo Stato riconosce il diritto e il dovere dei cittadini al lavoro ed è tenuto a promuovere i piani economici che assicurino il minimo necessario alla vita e, se non è possibile, l’assistenza’. Il giorno successivo Teresa Noce, tenendo ferma la distinzione fra ‘previdenza’ e ‘assistenza’, sottolinea che la distinzione va però accompagnata dalla precisazione che ‘l’assistenza va data anche a tutte le persone che non godono della previdenza’. E, contro le obiezioni di Enrico Molè ‘che così entrerebbe nel campo della beneficenza, mentre qui si tratta di diritti che scaturiscono dal diritto al lavoro’, la risposta di Teresa Noce fu ferma: ‘Non si tratta di assistenza sotto forma di carità pubblica, sia pure sociale, ma di qualche cosa che sorge da un diritto’. Così è nato l’articolo 38 della Carta.

Lei ha scritto molto anche della partecipazione alla vita politica delle donne.

La storia è una storia di monopolio maschile. Poche sono le donne elette, poche hanno voce nelle sedi della decisione politica. Nel ’93, una legge prescrisse la presenza di almeno un terzo di candidature femminili nelle liste elettorali, ma fu annullata dalla Corte costituzionale (sollecitata da maschi offesi!) in base all’equivoco fra norme ‘anti-discriminatorie’ e norme ‘di favore’, equivoco fortunatamente eliminato poi con una sentenza del 2003. Fu facile per i giudici respingere il ricorso del governo escludendo che si trattasse di un ‘privilegio’: la legge della Valle d’Aosta – impugnata dal governo – neppure fissava ‘quote’, prescriveva soltanto che nelle liste fossero presenti candidati di ‘entrambi i sessi’! Fu l’occasione per la Corte di esprimere valutazioni importanti anche per il futuro, aprendo possibilità sfruttate soprattutto a livello regionale. Nel 2010 la Corte ha respinto il ricorso contro la legge della Campania che consente all’elettore di esprimere due preferenze anziché una, purché riguardino l’una un candidato di genere maschile e l’altra un candidato di genere femminile della stessa lista: una soluzione semplice, che non piaceva al governo. Già a metà degli anni Novanta avevo proposto che nei collegi uninominali, ogni partito presentasse due nomi di un uomo e di una donna, tra cui l’elettore potesse scegliere. Mi piaceva non solo per la questione femminile, ma anche perché consentiva un minimo di scelta agli elettori. Ma era troppo scomoda per i partiti, che volevano garantire ‘collegi sicuri’: la doppia presenza avrebbe tolto la certezza.

Per molte donne le quote sono discriminanti.

Non è vero! Si trattava di rimuovere un ostacolo fattuale, quel monopolio di cui parlavamo prima. Per questo mi sono tanto battuta. Devo però dire che ora che la situazione è cambiata (con il 32% di deputate alla Camera, e il 30 di senatrici a Palazzo Madama) sono molto delusa: l’ingresso delle donne non ha cambiato nulla, mentre io lo speravo. Ma era importante affermare la pari opportunità nell’accesso: se non sei in lista, non puoi essere eletta. Oggi non ha più senso parlare di quote.

Ministra o ministro?

È una questione seria e difficile che solo il tempo, con l’assuefazione a un linguaggio rispettoso della differenza sessuale, può risolvere. Non credo che improvvisamente, con un colpo di bacchetta magica, si possano cambiare le cose. Anche perché a volte il risultato può essere ridicolo o indurre a equivoci sulla funzione: la parola ‘segretario’, ad esempio, usata anche per funzioni di rilievo elevato, declinata al femminile fa pensare a mansioni di assistenza. E tuttavia l’assenza del ‘nome’ tende a oscurare la presenza femminile nei ruoli importanti e socialmente apprezzati. Credo sia una questione seria che richiede riflessione. Per quanto mi riguarda, la cosa che preferisco è essere chiamata ‘signora’, ignorando i titoli accademici .

Cosa pensa dello scandalo delle molestie?

È una cosa gravissima, che attiene al potere. Non c’entra con il sesso, con il desiderio, è un modo per gli uomini di affermare il dominio. Non mi piace però il ritardo nelle denunce. L’idea che per ottenere un posto una donna debba giocare il proprio corpo è inammissibile. E i silenzi sono complicità; anche qui bisognerebbe però distinguere fra posizioni: quando si è estremamente deboli o bisognosi è difficile resistere.

Perché non è mai entrata nella Corte costituzionale?

So soltanto che di me qualche influente uomo politico ha detto: ‘È una donna inaffidabile’. So che invece vari giudici costituzionali si aspettavano la mia presenza.

Inaffidabile, cioè troppo indipendente?

Un complimento alla mia libertà. Io ho sempre pensato di non dover rendere conto a nessuno: se non a scienza e coscienza. Dove per scienza intendo i miei studi e per coscienza la mia fede. Del potere non ho mai avuto soggezione.

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