Noi del Fatto Quotidiano dobbiamo essere sinceramente grati a Eugenio Scalfari perché pronunciando una sola parola, anzi un solo cognome è riuscito a rendere palese, lampante, solare, assodato, indiscutibile ciò di cui eravamo straconvinti, ma che non riuscivamo a dimostrare fatti alla mano. Un po’ come quell’io so ma non ho le prove di pasoliniana memoria, fatte s’intende le debite proporzioni, poiché l’altra sera a DiMartedì non si parlava fortunatamente di trame golpiste, ma più modestamente delle prossime elezioni politiche.
Tema già abbondantemente trito e ritrito, benché manchi ancora parecchio, finché Giovanni Floris ci ha scossi dal sonno incipiente con un colpo d’ala e un colpo basso che il Fondatore ha incassato da par suo. Cosicché, messo dal bravo conduttore dinanzi a un angosciante rovello, scegliere dio ci salvi tra Berlusconi e Di Maio, il venerando e venerato ospite non ha frapposto indugio e ha esclamato con un sol fiato: “Berlusconi”.
Lo sventurato rispose, avranno pensato nella redazione di largo Fochetti, proprio mentre si stava per mandare in stampa, dopo “un cantiere di ascolto e di riflessione aperto da 18 mesi” (il direttore Mario Calabresi), il marmoreo restyling di Repubblica, atteso pensate da almeno “6 anni”. E che in un nanosecondo il Sommo ha rischiato di mandare, come diciamo dalle parti di Porta Metronia, in vacca. Insieme a quell’antiberlusconismo che, egli ha svelato, non è più nel Dna del giornale: sì, lo stesso che un tempo ossessionava il Cavaliere con le dieci domande per mandarlo in galera e che oggi lo blandisce per riportarlo al governo.
Chapeau, abbiamo invece pensato noi attenti studiosi del Tavecchio, e per due motivi almeno. In difesa della libertà di coscienza sulla quale nella chiusa del suo editoriale Calabresi invitava virilmente (per non dire altro) autori e lettori a non fare i furbi: “La parola d’ordine è una sola: scegliere” (e Scalfari infatti ha scelto Berlusconi). Ma soprattutto in onore del carattere di Eugenio, non quello tipografico della nuova Rep, ma del grande giornalista che più passa il tempo e più si concede il raro privilegio della sincerità. A Floris ha evitato di rispondere con gli stucchevoli giochini politichesi del né di qua né di là. E ha invece interpretato con nettezza il nuovo spirito del tempo che impregna Repubblica e il suo mondo di riferimento: meglio Berlusconi dei Cinque Stelle. Che per Scalfari sono il vero problema per non dire una vera jattura.
Ci risiamo con il male minore che però in questo caso non è come il patriottismo, estremo rifugio dei furfanti secondo Samuel Johnson. Sembra piuttosto l’autodifesa da un pericoloso corpo estraneo che non si può controllare. Ai tempi d’oro di Repubblica giornale partito, l’allora padre padrone metteva in vivavoce le telefonate deferenti dei maggiori leader di partito in modo che si sapesse chi era a dettare la linea.
Oggi, se pure quel fulgore si è spento, continua a sopravvivere il giornalismo di relazione che fa sistema con il capitalismo di relazione e con la politica di relazione. Con Berlusconi “populista europeista” (boh) si può parlare, fa capire Scalfari, ci si può mettere d’accordo. E infatti racconta che loro insieme, ai bei tempi, si facevano grandi risate (e magari l’uno strimpellava Douce France e l’altro accennava qualche passo di danza). Onestamente, ce li vedete Grillo o Di Maio che si consultano con Calabresi?
Resta un problemino: secondo tutti i sondaggi, i Cinque Stelle restano il primo partito, con circa tre punti di vantaggio sul Pd e con almeno il doppio dei voti di Forza Italia. Come può Scalfari auspicare un governo tra le due minoranze Renzi-Berlusconi senza con ciò negare il principio di maggioranza fulcro della democrazia rappresentativa? Di questo passo, con un estremo sforzo di sincerità, egli potrebbe anche mettere in discussione il suffragio universale. In fondo cos’è questa storia che un voto vale l’altro? O che ogni testa è un voto, se poi non si guarda cosa c’è dentro quella testa? Del resto, sbagliamo o nei suoi scritti domenicali Scalfari si è dichiarato a favore di un potere oligarchico concentrato nelle mani dei cosiddetti “migliori” e di pochi (non) eletti?
E se quelli che vanno a votare sono sempre di meno, è proprio un male? Soprattutto se poi scelgono i partiti sbagliati?