Non si scappa. O Fabio Fazio con l’intervista di domenica sera “a suo piacimento” (di Silvio Berlusconi) ha deciso di giocarsi definitivamente la reputazione. Oppure le sue cosiddette domande erano state gentilmente concordate con il gradito ospite e il suo staff evitando i temi scivolosi (tipo processi e indagini di mafia) e qualsiasi altro argomento che potesse soltanto increspare il cerone dell’anziano venditore televisivo. Poiché consideriamo Fazio troppo furbo per infliggersi dell’autolesionismo gratis, propendiamo per la seconda ipotesi. Anche perché fummo tra i primi, vent’anni or sono, a sperimentare in una indimenticabile (per noi) Tribuna Politica il metodo di convinzione (e dissuasione) preventiva dell’allora rampantissimo Cavaliere.
Mi venne incontro incipriato e festante negli studi di Saxa Rubra giurando che, malgrado una diversa visione dei problemi del Paese, io fossi indubitabilmente uno dei suoi cronisti preferiti. Quindi suadente arrivò al sodo: “Dottore potrei conoscere il contenuto delle domande che intende farmi?”. “Naturalmente no”. Subito il sorriso si afflosciò, perse smalto. Cambiò tattica: se non volevo sottoporgli l’elenco dei quesiti che almeno gli anticipassi gli argomenti che avrei trattato. “Le chiedo – aggiunse compunto e avvolgente – un gesto di cortesia e correttezza”. Che naturalmente non ci fu anche se giunto sull’orlo del burrone – i finanziamenti occulti di cui all’inizio si era giovato il gruppo Fininvest – svicolò e se la diede a gambe con la solita tirata sul pericolo comunista in Italia e sui gulag di imminente apertura.
Acqua passata pensavo fino all’altra sera quando lo spettro di una campagna elettorale televisiva finta, prefabbricata e insopportabile, ci si è parato dinanzi con quella agghiacciante carezza faziesca: “Cosa voleva fare da bambino?”. Il primo istinto è stato: se i talk show vogliono inabissarsi facendosi calpestare da una comunicazione politica attraente come un discorso sul piano quinquennale nella Nord Corea di Kim Jong-un, fatti loro. Poi però non si può dimenticare che in vista di elezioni politiche così incerte come quelle del 2018, i cittadini avrebbero il sacrosanto diritto di farsi un’idea precisa di coloro che potrebbero votare o avversare. Missione impossibile se le trasmissioni vengono adoperate come spot gratuiti e i giornalisti come cartonati parlanti. Un problema che riguarda soprattutto il servizio pubblico radiotelevisivo. La7, infatti, in qualche modo prospera sulle domande scomode; e in quanto a Mediaset qualcosa ci dice che, per esempio, Di Maio e B. non riceverebbero lo stesso trattamento.
Non dubitiamo, ci mancherebbe altro, della professionalità dei conduttori Rai e del loro interesse a difendere audience e qualità del prodotto. Più scarsa fiducia nutriamo nei vertici di Viale Mazzini non proprio impermeabili alle pressioni che giungono dalla macchina propagandistica dei partiti: Forza Italia, Pd ma anche i suscettibili Cinque Stelle. Sappiamo perfettamente che se un conduttore fa troppo lo schizzinoso con le pretese dei leader, costoro sanno di potersi rivolgere alla bottega accanto. Forse è troppo immaginare un patto delle firme Rai contro le domande “sgradite” e gli opinionisti “graditi” dai politici di turno. Anche se l’alternativa sono le figuracce e la desertificazione degli ascolti.