Più di 620 mila su un milione di persone che fanno parte della minoranza musulmana dei Rohingya del Myanmar, l’ex Birmania, sono fuggite in Bangladesh dopo la campagna militare del governo iniziata alla fine di agosto e definita dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani un “manuale di pulizia etnica”.
I profughi hanno raccontato storie che descrivonola persecuzione del governo. Il rapporto delle Nazioni Unite del 2017, riporta il Guardian, illustra cosa è successo invece ai Rohingya che sono rimasti: uccisioni di massa e stupri di gruppo da parte delle forze armate in azioni che “molto probabilmente” equivalgono a crimini contro l’umanità.
Eppure, nessuna parola per i Rohingya, da parte di Papa Francesco.
Il Pontefice, ieri mattina, è arrivato in Birmania e vi rimarrà fino al 2 dicembre recandosi anche in Bangladesh. Il Papa ha incontrato nell’arcivescovado di Rangoon il capo delle forze armate, il generale Min Aung Hlaing, considerato responsabile dell’esodo dei Rohingya e che per l’occasione ha parlato della “responsabilità delle autorità in questo momento di transizione del Paese”. In tutto, l’incontro è durato 15 minuti, seguito da uno scambio di doni: una arpa a forma di battello e una ciotola di riso decorata per Francesco che ha ricambiato con la medaglia del pontificato.
E i Rohingya? Niente. Come aveva raccomandato l’arcivescovo di Yangon, il cardinale Charles Maung Bo: “Ho avvertito il Papa. Gli ho detto che sia il governo che i militari, ma anche la gente in generale, soprattutto gli appartenenti alla polizia non gradiscono questo termine. Speriamo che non usi questa parola perché ha un’accezione molto politica. È un termine contestato”.
La parola in questione è Rohingya, minoranza mai riconosciuta come parte delle 135 etnie registrate in Birmania, da una legge del 1982, instaurata dalla dittatura militare e rendendo così apolidi i suoi appartenenti. Ancora oggi, il governo birmano riconosce solo le “razze nazionali”, quelle presenti nel Paese prima dell’arrivo dei coloni britannici, nel 1823, e dunque non i Rohingya.
In realtà, papa Francesco, lo scorso febbraio, alla fine di un’udienza generale, chiese di pregare “per i nostri fratelli e sorelle Rohingya” che “sono gente buona e pacifica”, aveva detto. “Non sono cristiani, – proseguì Papa Francesco – ma sono nostri buoni fratelli e sorelle. E da anni soffrono: sono torturati, uccisi, semplicemente per aver onorato e rispettato le loro tradizione e la loro fede musulmana”. Anche ad agosto il Pontefice aveva denunciato “la persecuzione della minoranza dei nostri fratelli Rohingya” e chiesto che “tutti i loro diritti vengano rispettati”.
Oggi Papa Bergoglio si sposterà nella capitale Naypyidaw per incontrare il presidente, Htin Kya, e il capo del governo birmano, Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, consigliera di Stato e ministro degli Esteri, oggi duramente criticata e accusata dalla comunità internazionale di ignorare la brutale repressione dei Rohingya. Il Vaticano ha definito l’incontro “una visita di cortesia”, ma intanto i leader della comunità islamica, che oggi incontreranno Bergoglio, gli chiederanno di intercedere a nome della minoranza perseguitata.