L’ultimo a parlare di flat tax è stato Silvio Berlusconi domenica scorsa a Che tempo che fa (Rai1). Mercoledì poi se ne è discusso in un convegno alla Camera dei deputati. La tassa ad aliquota unica che sia Forza Italia sia la Lega vorrebbero introdurre sarà un tema della campagna elettorale, l’unica ricetta di politica economica che unisce le due anime della destra.
L’idea dell’imposta “piatta” affonda le radici nei lavori degli economisti di Stanford, Robert Hall e Alvin Rabushka agli inizi degli anni Ottanta, il decennio in cui i Paesi anglosassoni hanno sperimentato massicci tagli delle tasse a beneficio delle classi più ricche. Berlusconi ha lanciato l’idea di una flat tax per persone (con reddito sopra i 12 mila euro) e imprese che adotti lo schema del Negative income tax (al di sotto di una certa soglia di reddito, l’imposta si trasforma in un sussidio) ma senza mai dettagliarla. Matteo Salvini punta a un’aliquota al 15% per la stessa platea di contribuenti (con fascia esente a 3 mila euro) come propone il suo consigliere economico Armando Siri. Entrambe le proposte non hanno coperture finanziarie. O meglio: si coprirebbero da sole grazie all’aumento del gettito dovuto al taglio fiscale, molti contribuenti che oggi evadono saranno spinti a pagare. Un evento che non si è mai verificato in nessuno dei Paesi che ha sperimentato modelli di flat tax studiati dal Fondo monetario internazionale. La realtà è che si aprirebbe una voragine nei conti pubblici.
Per questo l’Istituto Bruno Leoni, un think tank di impostazione liberista, il 25 giugno scorso ha lanciato una proposta organica (“#25pertutti”), a cura dell’economista Nicola Rossi, che da settimane è oggetto di dibattito: una flat tax al 25% che verrebbe estesa all’Ires e all’Iva con soglia di esenzione a 7mila euro (a salire in base a composizione e tipologia del nucleo familiare). La proposta modifica tutta la struttura del sistema fiscale: via l’Imu, l’Irap e la Tasi; arriverebbe l’Imposta per i Servizi Urbani (Isu). La proposta introduce anche un “minimo vitale”, una sorta di reddito garantito che colmerebbe il divario tra i redditi più poveri e una soglia minima calcolata in base alla Regione di residenza e al nucleo familiare. Una misura universale di lotta alla povertà che sostituirebbe i 60 miliardi spesi oggi per le prestazioni socio-assistenziali che verrebbero tagliati per finanziare la riforma. Per l’Ibl la proposta aprirebbe infatti un buco di 90 miliardi: il saldo negativo di 30 miliardi verrebbe colmato da tagli alla spesa pubblica.
La proposta ha ricevuto diverse adesioni e molte critiche, soprattutto a sinistra, ma è indubbio che la flat tax sarà il primo punto delle proposte fiscali della destra, e può fare breccia in un elettorato bipartisan anche grazie alla crisi dell’Irpef. Secondo un rapporto dell’Ufficio valutazione impatto del Senato, oggi la flat tax in parte già esiste: oltre i 28mila euro di reddito, l’aliquota marginale totale per le persone fisiche, grazie ad addizionali, bonus, assegni e detrazioni, smette di crescere, con buona pace della progressività imposta dalla Costituzione.
Anche Matteo Renzi pare stia lavorando per proporre una riforma dell’imposta sul reddito. Alla fine degli anni ‘90 l’economista Tony Atkinson (tra i massimi esperti nello studio delle disuguaglianze) ha mostrato alla sinistra che l’imposta unica non va demonizzata per principio. Per questo abbiamo chiesto a due tra i massimi esperti fiscali in Italia – Dario Stevanato (che ha contribuito alla proposta dell’Ibl) e l’ex ministro Vincenzo Visco – di confrontarsi sul tema.