La crisi della progressività dell’imposta sul reddito si manifesta in due direzioni. All’interno del perimetro, razionalità e leggibilità della curva sono minate dal proliferare di tax expenditures, bonus concessi selettivamente, aliquote marginali altalenanti, trappole della povertà e disincentivi al lavoro. Ne risulta una modulazione del prelievo erratica e fonte di inefficienze, con accentuata progressività sui redditi medio-bassi e proporzionalità per quelli elevati e molto elevati.
L’Irpef non riesce a differenziare adeguatamente il prelievo per ammontare di reddito crescenti, data la rapida progressione dell’aliquota legale, che sale al 38 per cento già oltre i 28mila euro salvo poi appiattirsi, e l’andamento decrescente delle detrazioni che determinano aliquote marginali effettive superiori per i redditi medi che per quelli elevati, e aliquote medie in alcuni intervalli decrescenti.
La progressività è stata erosa da regimi cedolari sostitutivi: per molti redditi finanziari, immobiliari o d’impresa il principio di progressività non vale più. Esigenze di semplificazione o anticipazione del gettito, strategie di concorrenza fiscale o di recupero dell’evasione forniscono sempre nuovi argomenti per imposte speciali proporzionali di cui si avvantaggiano soprattutto i possessori di redditi elevati, mentre la progressività risulta confinata a lavoratori dipendenti, pensionati e prestatori di servizi professionali. Un soggetto con un reddito di lavoro di 100 mila euro pagherà aliquote via via crescenti fino al 43 per cento (più le addizionali regionali e comunali), mentre chi realizza una plusvalenza azionaria di pari ammontare corrisponderà un’aliquota fissa del 26 per cento, o meno, in caso di previo “affrancamento” agevolato. Ma è così venuto a cadere il postulato dell’imposta progressiva, che doveva tener conto del reddito globale del contribuente, limitando le deroghe alla progressività “nella maggior misura possibile”, come si esprimeva la legge delega per la riforma tributaria del 1971.
È in questo scenario che occorre inquadrare le proposte di transizione a una flat tax: un’imposta sul reddito personale ad aliquota proporzionale, con esenzione universale dei redditi di sussistenza, deduzioni connesse a particolari status personali o familiari (età, presenza di minori, situazioni di disabilità), cancellazione delle tax expenditures e previsione di sussidi (imposta negativa, integrazioni al minimo) per gli incapienti.
La flat tax è stata rappresentata come un attacco al principio di progressività e un regalo ai più ricchi a spese della classe media. L’obiezione appare tuttavia surreale, visti i tanti regimi sostitutivi che oggi avvantaggiano i capital income e i soggetti più abbienti. L’ordinamento ha già smarrito i tratti di universalità e progressività che si vogliono a parole difendere: preservare lo status quo significherebbe continuare nella discriminazione dei redditi di lavoro, penalizzati da un cuneo fiscale tra i più alti al mondo (come certificato dall’Ocse in Taxing wages). Quel che si contesta alla flat tax, di tassare allo stesso modo il salario dell’operaio rispetto alla remunerazione del manager, è in realtà l’esito del sistema attuale, il quale riesce a fare anche di peggio, dato che rentier e titolari di redditi con una componente capitalistica pagano imposte proporzionali con aliquota spesso inferiore a quelle applicabili al lavoro.
Si obietta che la flat tax potrebbe rispettare il principio costituzionale di progressività soltanto concedendo a tutti l’esenzione del minimo, ma questo è un pregio, non un difetto. L’Irpef odierna contravviene al principio di capacità contributiva tutelando il minimo vitale in modo selettivo, attraverso detrazioni che perseguono in modo opaco finalità di discriminazione qualitativa dei redditi; al contrario una flat-rate tax connotata da una congrua franchigia esente e un’aliquota sufficientemente elevata, in grado di far gravare la progressività (“per deduzione”) sui redditi medio-alti, garantirebbe un accettabile compromesso tra equità ed efficienza, ripristinando l’uguaglianza tra contribuenti e classi sociali.
Otterrebbero vantaggi tutte le categorie di contribuenti, purché la transizione avvenga senza il vincolo della parità di gettito: nella proposta dell’Istituto Bruno Leoni (“25% per tutti”), la perdita di entrate – finanziata da riduzioni di spesa – è stimata in 30 miliardi di euro, con allineamento della pressione fiscale alla media Ue (40 per cento).
L’altra obiezione attiene all’incapacità di una flat tax a garantire un’adeguata redistribuzione, cui si può replicare osservando che le imposte servono a finanziare i servizi pubblici, mentre la redistribuzione si fa soprattutto dal lato della spesa, come rilevato dall’Imf in Tackling inequality: nei Paesi avanzati i trasferimenti sono responsabili per i tre quarti della riduzione delle disuguaglianze. In una flat tax con imposta negativa e trasferimenti verso i meno abbienti l’impatto redistributivo può addirittura migliorare, come dimostrato nei calcoli del Bruno Leoni. La flat tax è forse un second best rispetto al modello dell’imposta personale progressiva sul reddito globale, ma è certamente da preferire, sul piano dell’equità e dell’efficienza, rispetto al farraginoso assetto clientelare, disincentivante e discriminatorio che impronta la tassazione dei redditi in Italia.