Un anno fa, il 4 dicembre 2016, più di 33 milioni di italiani uscirono di casa per recarsi ai seggi del referendum sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi. Il 65,47 per cento degli aventi diritto.
Un numero gigantesco di persone, impensabile se confrontato con la fuga crescente degli elettori che da anni disertano le urne, con percentuali, è il caso di dire, bulgare: fino ad arrivare ai due assenti su tre di pochi giorni fa nel voto di Ostia. I motivi profondi di questa straordinaria eccezione così li aveva spiegati Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari nella famosa intervista del 1981 sulla questione morale: “Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di una parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti.
Ebbene sia nel ’74 per il divorzio, sia ancora di più, nel 1981 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un Paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al Nord come al Sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari”. Ora, dando atto ai radicali di aver valorizzato in Italia questo essenziale strumento di democrazia diretta e rimpiangendo l’epoca lontanissima in cui la sinistra parlava di operai e proletari, proviamo a vedere che cosa resta di quel voto “assolutamente libero da condizionamenti”, soltanto un anno dopo. Di positivo, certamente, c’è il mancato stravolgimento della Carta costituzionale. Il Senato è rimasto al suo posto e la nostra democrazia parlamentare, con tutte le sue imperfezioni, non è stata trasformata con un colpo di mano in un regimetto a uso e consumo dello statista di Rignano sull’Arno. Non è affatto poco viste le dimensioni della minaccia. Per il resto la lezione democratica del referendum è rimasta pressoché inascoltata. Non soltanto Renzi non si è ritirato dalla politica, come si era impegnato a fare in caso di sconfitta, ma se si toglie la fugace ammissione dell’“abbiamo straperso”, ha continuato imperterrito a considerarsi il capo di un partito personale. Riflessioni autocritiche? Correzioni di rotta? Quando mai. Si è fatto rieleggere segretario incurante dell’emorragia di voti che nell’arco di tre anni ha quasi dimezzato il famoso 41 per cento delle Europee. Da uomo solo al comando a uomo solo, perso nell’illusione che quei 13 milioni di Sì gli appartengano per grazia divina. Forse per effetto indotto ma la partecipazione al fronte vittorioso del No ha in qualche modo rivitalizzato il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi. Che tuttavia ha già fatto capire di non escludere un nuovo patto del Nazareno con Renzi nell’eventualità (probabile) che dal prossimo risultato elettorale scaturiscano problemi di governabilità. Tutto come prima. I Cinque Stelle hanno rappresentato il motore del No ma da quel vasto voto non hanno ancora ricavato l’esigenza di uscire dal loro splendido isolamento, per aprirsi ad alleanze, per costruire ponti con altre realtà. Con quella sinistra, per esempio, non lontanissima da loro sui temi della legalità e della lotta al disagio sociale. Insomma, stanno bene come stanno. Se il 4 dicembre 2016 non sembra aver smosso granché nella politica nel suo insieme questo giornale si sente partecipe di quei 19 milioni e mezzo di No. Essi appartengono esclusivamente ai cittadini che hanno reagito al rischio di una involuzione democratica. Ma noi del Fatto Quotidiano a essi abbiamo creduto, da subito e fino in fondo. Quando la propaganda ossessiva del Sì sembrava non avere argini, pressoché da soli abbiamo continuato a sventolare la bandiera di un Paese “liberissimo e moderno”. Il 4 dicembre è anche la nostra festa.