Milano, piazza Gae Aulenti. In alto i grattacieli, il Bosco Verticale, il palazzo della giunta regionale, l’Unicredit Tower, in basso una folla in coda ordinata e silenziosa. Ragazzi ed ex ragazzi degli anni 90 aspettano il loro turno per entrare nel Jova Pop Shop, un negozio temporaneo, aperto in occasione dell’uscita del nuovo album di Jovanotti, Oh, Vita!. Dentro c’è lui, che suona, da una settimana tutti i giorni, dal pomeriggio fino alle dieci, alle undici di sera. Sul palco con lui Saturnino ed eccezionalmente Federico Zampaglione. Ogni mezzora viene fatto uscire il pubblico per far entrare un gruppo nuovo di fan. E Lorenzo ricomincia a cantare per i nuovi arrivati. Dietro al palchetto allestito nel negozio c’è il suo staff, i suoi amici e la sua bella Francesca, sempre presente, sempre attenta con i suoi occhi di un blu magnetico. Mi dice: “È un’impresa farlo scendere dal palco”. Aspettiamo, poi finalmente arriva.
Cantare per ore, da giorni in un negozio, ma chi glielo fa fare?
Mi piace, mi serve per provare, per sentire la temperatura, la reazione delle persone al nuovo disco, nei palasport non ho mai il pubblico così fisicamente vicino.
Il nuovo album è davvero diverso da tutto quello fin qui fatto. Per cambiare così tanto a 51 anni, dopo 30 anni di carriera e 13 dischi, ci vuole più coraggio, più umiltà o qualche insoddisfazione?
C’era voglia! Se avessi detto “ragazzi non sono soddisfatto” dopo l’ultimo album che ha avuto cinque dischi di platino e 800 mila persone nel tour sarei stato uno da menare! C’era invece il desiderio di uscire dal castello dorato in cui mi ero ritrovato. È una bellezza essere una rockstar, ma mi piace l’idea di essere un artista avventuroso, che si prende dei rischi, che fa qualche salto nel vuoto. Ci voleva un atto di coraggio che probabilmente non sarebbe stato così decisivo se non avessi incontrato Rick Rubin. Mi sono affidato al più grande produttore di tutti i tempi.
Lei ha detto: “Rubin mi ha messo a nudo partendo dalle mie debolezze”. Quali sono?
Lui ha messo in evidenza la mia voce, che è tutto tranne che una voce da cantante, è il contrario: non ha la perfetta intonazione, non ha il timbro vellutato, non ha l’estensione, come quasi tutti i rapper. La mia è una voce maleducata, rispetto alla tradizione del bel canto. Ho sempre pensato che non mi avrebbero mai preso in un talent show, anzi non sarei arrivato nemmeno alle preselezioni, ho pure la s con la lisca. Però poi sono 30 anni che sono qui e la reazione a questo disco è strepitosa.
Che rapporto ha con il successo?
Il successo mi è arrivato prima ancora delle canzoni, mi è arrivato quasi in classe a scuola. Non l’ho mai cercato, è arrivato.
Quanto è faticoso dover piacere a un pubblico così vasto?
È una bella sfida, ma io sono iper-competitivo, rispetto a me stesso, rispetto alla scena musicale. Non sono mica disinteressato a confrontarmi con quello che chiamiamo ‘successo’, ma di fatto è un participio passato. È una cosa che è già successa, a me interessa quello che sta per succedere.
Paura di non essere capito, cambiando così tanto direzione, l’ha avuta?
Molta. Avevo paura che questo disco non funzionasse e avevo paura di come avrei potuto reagire. Ma sentivo che in questo disco c’era una mia verità forte ed ero molto curioso di vedere l’effetto di un album così crudo, con la mia voce in faccia, dove non vengono corrette le imprecisioni, dove si sente il mio respiro. È quasi un disco in bianco e nero.
Nel 2008 prestò a Walter Veltroni una sua canzone, “Mi fido di te”, per la sua campagna elettorale. In realtà quello non era un testo trionfalistico, anzi ci si chiedeva cosa si era disposti a perdere per progredire. Per Veltroni è finita come è finita. Oggi presterebbe ancora una sua canzone per una campagna elettorale?
No, non lo rifarei perché sono cambiate tante cose nel clima politico, è troppo feroce. In quegli anni non c’erano questi toni. La cosa più importante per me resta la musica, e la musica è di tutti e per tutti, quando va in mano agli altri ne perdi il controllo: non posso sapere le strumentalizzazioni che poi si fanno delle mie canzoni. Non mi piace questo clima, la battaglia politica mi interessa meno di quanto mi interessava in quegli anni. Ovviamente andrò a votare, perché questo calo di affluenza mi preoccupa. Sono disposto a dire pubblicamente la mia opinione, ma non più a ‘prestare’ una mia canzone. Allora l’idea di Veltroni e la nascita del Pd mi avevano coinvolto emotivamente, avevo creduto al Pd del Lingotto, in quel momento andava bene così, adesso non lo rifarei.
Nel suo libro-rivista SBAM! confessa: “Anch’io ho avuto una sbandata per la vecchia idea di una politica fatta di consenso…”. Cosa le ha fatto cambiare idea?
In questo Paese, quando si raggiunge il potere, lo si usa per conservarlo e non per poter fare qualcosa. In inglese power significa energia, quando va via la luce si dice “the power goes out”. Mentre noi diamo al potere il significato di qualcosa che ferma le cose, identifichiamo il potere come un tappo che si mette sopra alle cose, mentre il potere è movimento. Si dovrebbe pensare: “Ho ottenuto il consenso per fare le cose che ho promesso”, invece si raggiungono i posti di prestigio e tutto il lavoro serve solo a mantenere quel potere e a non perderlo più.
C’è qualcosa che proprio le dispiace che dicano di lei?
In generale mi dispiace il pregiudizio. Mi agita la strumentalizzazione, non mi piace quando mi eleggono a simbolo di qualche cosa.
Ma il suo peggior difetto invece qual è?
Sono distratto con le persone intorno a me, a volte ego-riferito, altrimenti mica avrei fatto questo lavoro qui, avrei aperto una onlus, che poi magari sono ego-riferiti pure quelli che aprono le onlus eh… almeno un cantante fa il cantante, l’altro dice “io faccio del bene all’umanità”, io invece faccio solo canzoni (ride).
Nel suo album c’è una canzone molto romantica, “Chiaro di Luna”, pensata per sua moglie Francesca, la sua compagna di sempre. Se avesse a disposizione solo tre motivi per dirle “grazie”, cosa direbbe?
Grazie, grazie mille e grazie ancora.
Tre motivi…
Perché siamo una coppia, è una figura alchemica la coppia, è Adamo ed Eva…
Ma i tre motivi…?
Uno perché mi dice la verità, due perché mi dice la verità e tre perché mi fa vedere delle cose che non vedo.
Cosa desidera per sua figlia Teresa?
Non desidero nient’altro che sia contenta e che stia bene. Che sia libera, rispettosa, onesta e che tutti i giorni si renda conto anche della fortuna.
Esiste un ricordo della sua vita che la commuove?
Sono tanti, forse perché ho superato i cinquant’anni comincio a commuovermi per tante cose che hanno a che fare con le persone che non ci sono più.
Crede in Dio?
Ma sì, sì sì. Te lo dico un po’ così (ride).
Cioè c’è stima?
Sì sì lo stimo e spero anche lui mi stimi (ride). Sono più i momenti in cui ci credo che quelli in cui non credo. Alcune volte penso che è tutta una storia di cellule impazzite che si aggregano e poi si dividono, ma poi invece ci sono momenti in cui hai la sensazione di essere figlio di qualcuno.
E prega?
Ho un grande pudore per la sfera dello spirito, per me è una ricerca continua, sono nato immerso nell’iconografia sacra. A casa mia le Madonne erano dappertutto. Sono cresciuto in una famiglia in cui il 2 novembre si tiravano fuori tutte le foto dei morti e si diceva il rosario. Per me era una fonte di grande divertimento, era una festa, perché c’erano queste mie due nonne che si rimbalzavano il rosario e facevano a gara a chi lo diceva meglio, sembrava X Factor. Si andava sempre a messa, ma non ho mai avuto la sensazione che fosse una cosa mistica, piuttosto un’abitudine. La Madonna che schiaccia con il piede il serpente… è una figura, una Signora… certo che se adesso mi sentisse parlare un teologo direbbe ‘ma questo è proprio scemo’ (ride). Comunque ho anche tatuato la Madonna sul braccio. C’è quella frase bellissima che dice “Dio non c’è, ma la Madonna è sua madre”.
Che rapporto ha con il tempo che passa?
Qualche giorno mi sento vecchissimo, altri giovanissimo. Il tempo prima di tutto è una figura musicale, per me è ritmo. Quando riesco a dare ritmo il tempo mi piace, quando vado fuori tempo mi preoccupa e mi pesa.
Il concetto del tempo e dell’età è nel nome d’arte che si è scelto, deve essere impegnativo…
Sì, Neil Young ce l’ha addirittura nel cognome, lui non se l’è nemmeno scelto. Io invece mi sono scelto questo nome da ragazzino pensando che durasse poco, non mi ponevo il problema.
Lo sente ancora suo?
Sì, ha talmente tanta storia che mi piace sempre di più. Funzionava molto bene quando avevo 20 anni, ha funzionato meno tra i 30 e i 40, ora invece ha ripreso il suo posto.
Ha realizzato moltissime hit. Se dovesse scommettere, quali sono le tre canzoni che tra cinquant’anni si canteranno ancora?
Difficile dirlo. A te, L’ombelico del mondo, Ragazzo fortunato o forse Ragazza magica. La mia anomalia, che è la mia fortuna, è nel fatto che molte mie canzoni sono allegre e questo mi dà uno spazio tutto mio nella musica italiana che invece è occupata prevalentemente da malinconia e canzoni struggenti. Questo mi mette al riparo dall’erosione massiccia. Vuoi una canzone allegra? Ce l’ho, ne vuoi un’altra? Ce l’ho.
Lei ha attraversato trent’anni di carriera con “la faccia pulita”, senza droghe e soprattutto senza ingrassare, mentre la maggior parte dei suoi colleghi rockstar sono o fanno i maledetti. Chi è più strano, lei o loro?
Ognuno è quello che è. È strano chi non fa quello che non gli è congeniale, l’importante è essere autentici. A me ha sempre fatto paura la chimica, non ho paura di scalare una montagna, non mi fa paura la velocità, bere l’acqua da una pozzanghera o dormire in un letamaio, ma ho paura di prendere una pillola bianca e rossa che non so che cazzo c’è dentro. Poi l’idea di farmi una puntura? Ma neanche sul sedere! Quando mi devo fare un’antidolorifica scappo! Su di me quella cosa non poteva attaccare.
Nota finale non richiesta, ma che onestà impone: chi ha realizzato l’intervista ha trascorso la pre-adolescenza con indosso la felpa con la scritta “È QUI LA FESTA?” (messa perfino, e solo per distrazione, a un funerale), alternandola di tanto in tanto con l’altra, meno amata ma altrettanto valida, “SIAMO O NON SIAMO UN BEL MOVIMENTO”. Si perdoni quindi se il piglio critico ha ceduto il passo all’entusiasmo, ma del resto “come posso io non celebrarti, Oh Vita!”?