Lo so, è tecnicamente impossibile. Ma come sarebbe bello (e moralmente sacrosanto) se la magistratura potesse costituirsi parte civile contro la scuola del dott. Francesco Bellomo, quando fossero provati i gravi fatti che occupano le cronache. I danni che la magistratura sta subendo sono devastanti. Ricordiamo (con Luigi Ferrajoli) che ogni cittadino – del giudice con cui abbia a che fare – valuta “l’equilibrio o l’arroganza, il rispetto oppure il disprezzo per la persona, la capacità di ascoltare le sue ragioni o l’ottusità burocratica, l’imparzialità o il pregiudizio” . Così fino a ieri. Ma domani si cambia.
Forse, quando tutto sarà definitivamente accertato, il cittadino dovrà anche chiedersi se il magistrato che ha davanti si sia “formato” in scuole come quella. Perché, se pur di essere accettati dal “capo” (che si compiace di paragonarsi ad Einstein) ci si piega senza batter ciglio all’imposizione di un particolareggiato “dress code”, che prevede tra l’altro jeans stracciati, lunghezza della minigonna e tacco 12; trucco calcato con rossetto acceso e valorizzazione degli zigomi; firme indicate tra le più costose per abiti e scarpe: ecco che invece del diritto prima di tutto si impara la subordinazione e l’assoggettamento. Come sintetizza l’obbligo di indossare “magliette di tendenza”, cioè di seguire le mode invece di decidere secondo le proprie convinte motivazioni. Siamo alla filosofia del branco e del “signorsì” a prescindere.
Rafforzata quando sul podio c’è un “maestro” sensibile alle prove di appartenenza: ora un po’ strambe (andare in Ferrari con lui ad alta velocità), ora inquietanti (un contratto di fedeltà assoluta “riservato” ai borsisti). Fino a prevedere – per le ragazze – “attenzioni” eccessive, tanto da spingere un padre alla denuncia. Così mescolando interessi personali e vita privata con i doveri d’ufficio (le lezioni di diritto) e offrendo agli aspiranti magistrati un pessimo esempio. Sviluppato con la distinzione degli allievi in esseri superiori e inferiori: non il miglior viatico per chi dovrebbe poi applicare il principio di eguaglianza… Saranno le inchieste in corso a dire l’ultima parola. Ma allo stato delle conoscenze si profila un quadro dove l’indipendenza e l’autonomia di giudizio non sono di casa. Che anzi induce a concepire la magistratura come uno status di odioso privilegio, non garanzia dell’uguaglianza e dei diritti del cittadino. Il quale perciò avrà paura di quel magistrato e dubiterà della sua affidabilità. Con guasti a catena per la credibilità e fiducia della magistratura tutta. Una mina vagante contro il modello costituzionale di magistrato dipendente solo dalla legge. Condannato a soccombere per far posto ad un modello diverso che richiama il cibo spazzatura. Quello che circola secondo criteri di quantità e profitto, non di qualità e genuinità. Spazi aperti anche in magistratura, quindi, a logiche di mercato e concorrenza: incompatibili con il rispetto del bene comune e dei valori (che roba sarà mai?); anzi veicolo per gli idoli del consenso e del potere, antitesi del corretto esercizio della giurisdizione. Tutto ciò in una fase di preparazione iniziale al lavoro giudiziario il cui imprinting peserà sempre in modo decisivo. E si sa che partire col piede sbagliato equivale a crearsi un handicap poi molto difficile da recuperare.
Infine, va pur detto che a furia di scuole private che nascono un po’ dovunque, il panorama complessivo ricorda una giungla. Variegata ma anche selvaggia. Sostanzialmente fuori controllo, con punte di pericolosità per chi voglia diventare un buon magistrato e non solo un burocrate ammaestrato per vincere un concorso.
È indispensabile fare presto qualcosa. Per esempio istituire per legge un albo pubblico cui le varie scuole debbano obbligatoriamente iscriversi. Indicando quanto serve per monitorarle e valutarle (docenti e allievi; sede e orari; materie e modalità di insegnamento etc.). Comprese le “tariffe” praticate, così da evitare pagamenti in nero: che, trattandosi di futuri magistrati, in una scuola di calcio sarebbe come insegnare a farsi autogol.