Immaginiamo che, di questi tempi, una giovane donna di nome Italia si rechi a un colloquio per essere assunta come commessa in un supermercato. Con la Costituzione in tasca. Che le venga proposto un contratto a termine (nel periodo natalizio, poi si vedrà). Naturalmente con la rinuncia al riposo domenicale (si capisce, sono giorni particolari). E con la possibilità di licenziamento, previo indennizzo, nel caso l’azienda fosse costretta per motivi economici a ridurre gli organici (probabilmente dal giorno dopo la Befana). Si chiama Jobs act, mettiamo però che l’intrepida Italia faccia finta di non saperlo, tiri fuori il prezioso testo di cui celebriamo la promulgazione e reciti ad alta voce l’articolo 36 che le sembra il più appropriato. Quello secondo il quale “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Quello che fissa una “durata massima della giornata lavorativa” e che prevede “il diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite a cui non può rinunziarvi”. Una follia eversiva coi tempi che corrono. Accompagnata alla porta, la nostra amica forse avrà il tempo di citare l’articolo 37, che impone che “alla donna lavoratrice” siano assicurati “gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”. E che le “condizioni di lavoro devono consentire alla donna l’adempimento della sua essenziale funzione familiare”. Il solito dissennato buonismo. A questo punto pensiamo che la povera Italia sarebbe già stata segnalata come perturbatrice della pubblica quiete (e alla Asl per problemi mentali).
Potremmo proseguire con altri esempi di impietosa attualità (“La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”: articolo 47 ah ah). Sarebbe un esercizio stucchevole e improduttivo poiché nel senso comune (cosa diversa dal buon senso) la Costituzione “più bella del mondo” può essere equiparata alle solenni iscrizioni incise sulle facciate dei monumenti (tipo: un popolo di poeti, di artisti, di eroi…). Edificanti, certo, ma chi ci fa caso? Risparmiamo al lettore la distinzione tra Costituzione formale e materiale (la concreta applicazione da parte delle forze politiche) racchiusa nell’interrogativo che già settant’anni fa divise gli studiosi. Ovvero, se e in quale misura la nuova classe di governo e quelle successive si sarebbero riconosciute nei principi e nei fini di lungo periodo enunciati dalla Carta. Eppure, se fossimo qui semplicemente a commemorare un documento polveroso, e in larga parte anacronistico, soltanto un anno fa la stragrande maggioranza degli italiani non sarebbe corsa a votare No allo stravolgimento di norme fondamentali imposto dalla riforma Renzi-Boschi.
È il paradosso del non so a cosa serva ma guai a chi la tocca. Per tenere vivo il fuoco si parlò allora della creazione di comitati per l’attuazione concreta dei principi costituzionali. Quanto di più rivoluzionario alla luce degli esempi fatti prima. Pensate a questa scena in quel di Como o nelle altre accoglienti città padane dove si pratica la caccia al migrante e si vieta una tazza di latte ai clochard esposti al gelo. Un pugno di temerari irrompe tra gli esagitati di un simpatico raduno televisivo “sovranista”, e comincia a leggere la seguente frase: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Roba da lasciarci la pelle. È l’articolo 2 della Costituzione italiana.