C’è la neve a Kremikovtzi, in Bulgaria, a trenta minuti di auto dalla capitale Sofia: è la prima nevicata di dicembre e le temperature sfiorano lo zero. Ricopre le decine di vecchi autobus abbandonati in ogni angolo che fino agli anni Novanta trasportavano gli operai nelle fabbriche in cui si lavorava il ferro. Almeno 20mila lavoratori che, durante il comunismo, venivano prelevati dalla periferia della città dove erano stati messi a vivere e condotti in quest’area industriale. Oggi è tutto abbandonato: si vedono le sagome delle ciminiere e delle fabbriche nella nebbia. Le insegne con le scritte in cirillico sono sbiadite, i taxi arrivano a fatica e grossi cani da guardia si aggirano in quest’area spettrale. Un tempo qui si produceva e si facevano soldi, poi quello che gli abitanti chiamano “il sistema capitalistico” ha reso antieconomico lavorare il ferro. “In Bulgaria non ce n’è – spiegano – e importarlo costava troppo”. Le fabbriche hanno chiuso una dopo l’altra, non è rimasto nulla se non un silenzio inquietante. Eppure, tra questi scheletri industriali, si producono soldi, moneta. Meglio: criptomoneta. Inaspettatamente c’è una miniera d’oro nascosta, ci sono le “fabbriche di bitcoin” europee, quei luoghi dove nasce la moneta virtuale di cui tutti parlano da mesi e di cui tutti si chiedono la provenienza. Chi c’è dietro? Come nasce? Esiste davvero una “fabbrica di bitcoin”? Sì, esiste. Anzi, esistono.
Così si fanno soldi nella fabbrica abbandonata
Incontriamo Gianluca Mazza e Alekos Filini in una stradina di Sofia. Sono ospiti di una loro socia bulgara. Per chiamare il taxi bisogna usare a un app sullo smartphone. “I tassisti non parlano molto inglese – spiega Gianluca – e il posto dove dobbiamo andare non è facile da spiegare”. Man mano che ci si allontana dalla città, il paesaggio cambia. I palazzoni della periferia, i campi innevati, le baracche, le ferrovie arrugginite con i vagoni altrettanto arrugginiti. Quando appaiono le sagome dei primi capannoni industriali è chiaro che siamo in una zona abbandonata. Le scritte e le indicazioni sono sbiadite, non c’è un’anima, incrociamo una sola auto. Ci fermiamo nel piazzale di una struttura azzurrina. Azzurra la facciata, il pannello su cui c’era la vecchia denominazione, azzurra la guardiola dove c’è una guardiana a cui fanno compagnia due grossi cani che un po’ abbaiano e un po’ chiedono di essere accarezzati. All’ultimo piano, c’è la “0301”, la farm – fabbrica – di questi due italiani che producono criptovalute in Bulgaria. Fa freddo fuori, freddo dentro la struttura. Saliamo al quarto piano: i muri sono scrostati, le stanze fatiscenti ma in fase di ristrutturazione. Al piano della fabbrica si accede attraverso un cancello verde: un passo e ci si ritrova in una galleria del rumore. C’è un ronzio fortissimo e costante che aumenta d’intensità a ogni passo. “Sono le ventole”, spiegano. Un sofisticato sistema di aerazione mantiene bassa la temperatura. Ce n’è bisogno, nonostante il freddo glaciale di Sofia. Quando Alekos prova a spegnerle, l’ambiente si surriscalda in pochi minuti. “È colpa delle macchine – spiega – il loro lavorio produce calore”. Aprire le finestre non basta, le ventole vengono riaccese dopo poco: le macchine devono stare al fresco altrimenti rischiano di bloccarsi e rompersi.
Gli scaffali che accumulano premi
Siamo nella fabbrica di criptomonete: file di scaffali su cui sono incastrate centinaia di schede video che lavorano notte e giorno per “minare”, ovvero per produrre bitcoin e altcoin (criptomonete alternative al bitcoin). Si tratta di componenti utilizzate per i videogiochi: la complessità del lavoro richiede infatti alte prestazioni. Ogni “macchina” è composta da sei schede video e ognuna fa eseguire un programma informatico che lavora per ottenere ‘un premio’. “Le macchine – prova a spiegarci Gianluca – fanno girare un algoritmo. Il loro lavoro, e la corrente che consumano, viene ripagato in criptovalute che finiscono sul nostro portafogli virtuale”. Sono loro poi a inserirle nel circuito, vendendole. Alekos e Gianluca al momento minano soprattutto criptomonete alternative, dagli Ethereum a Zcash, poi le convertono in bitcoin.
Come si aggira la Cina monopolista
Il monopolio delle macchine per produrre direttamente bitcoin è infatti cinese e appartiene all’azienda Bitmain. “Periodicamente – spiega Gianluca – mette in vendita un migliaio di macchine in stock online e c’è la corsa ad acquistarle visto che per mesi non ne vendono più”. Così in Bulgaria c’è chi le compra a 5mila leva (la moneta bulgara che vale più o meno 50 centesimi di euro) e le rivende al doppio del prezzo. Per aggirare il problema e le truffe, i minatori di criptomonete ricorrono alle schede video. Costano circa 600 euro l’una e il prezzo aumenta al crescere della loro potenza. Nella farm 0301 c’è un investimento di 600mila euro (proveniente da 13 investitori italiani e non). “A gennaio – spiega Gianluca – le macchine raddoppieranno e il rientro del capitale è previsto entro un anno”. In tre mesi si sono però già ripagati il costo di quasi metà delle macchine.
Il business delle farm e dell’energia low cost
Ivan Kamburov è invece bulgaro. È il titolare di un’azienda che si chiama Mint ed è il fornitore dell’infrastruttura. “Guarda – ci dice mostrandoci una foto sul suo smartphone – ci crederesti che si tratta di una fabbrica?”. È l’immagine di una struttura abbandonata e fatiscente: semidistrutta, pezzi di legno ovunque e vetri frantumati, immondizia e residui industriali. “Questa sarà la prossima factory!” esclama entusiasta. È lui che ha fornito a Gianluca e ad Alekos il posto dove montare le macchine. “Sono un landlord”, dice. Un proprietario terriero. In Bulgaria minare bitcoin è un affare: l’elettricità costa un terzo che in Italia o in quella che viene definita “western Europe”, Europa dell’ovest. “La cosa più difficile da reperire in questo business – spiega in inglese – è l’elettricità. Perciò siamo in questa parte della città: solo due stanze consumano come una fabbrica medio-grande, una di queste macchine come una casa con un termosifone durante l’inverno. Cinque macchine consumano come una normale famiglia”. In una sola delle sale si consumano 300 kw di energia elettrica l’ora: la zona industriale garantisce un approvvigionamento stabile. A Ivan viene pagato l’affitto della fabbrica. “Costruiamo l’infrastruttura, troviamo queste strutture e le ristrutturiamo. Costruiamo l’impianto di ventilazione e rinnoviamo la rete elettrica. Ci definiamo una data center company”. Ivan e i suoi soci, però, hanno anche altre attività. Come la nascente ‘Amanda’ (con la collaborazione tra il team italiano di 0301 e quello bulgaro di Mint). “È per chi vuole partecipare al mining delle criptovalute solo con investimenti. Noi compriamo le macchine, le mettiamo a lavorare e a fine anno ci sono i dividendi”. Dice di aver sempre lavorato nell’information technology (It): ha assemblato le prime macchine per i bitcoin nel suo garage circa cinque anni fa. Poi si è lanciato nel business dell’infrastruttura. Ha capito che la nazione in cui vive ha un vantaggio competitivo che le permetterà di diventare leader europeo in questo campo. Si risparmia sia sull’elettricità che sulla manodopera, c’è il 10 per cento di tassazione e la vita costa la metà. “In questi ultimi mesi, poi, c’è stato un boom, molti si avvicinano ai bitcoin per speculare. È un periodo redditizio per noi e non importa se in due anni tutto questo sarà obsoleto: avremo ormai creato una rete di contatti e competenze in tutta Europa che sarà una base per lo sviluppo di nuove tecnologie e di nuovi impieghi, a partire dalla blockchain (la tecnologia su cui si basano i bitcoin, ndr).
Una terra inesplorata e ancora non conquistata dai monopolisti del web. “Forse passeranno i Bitcoin, ma rimarrà la tecnologia e noi vogliamo esserci”. L’investimento di Mint è stato di 100mila euro, in 15 mesi sono cresciuti di quattro volte. Per il loro sito (attraverso il quale è possibile ‘affittare’ macchine per minare) hanno oltre cento dispositivi: è un business diverso da quello di Gianluca e Alekos che, invece, hanno un approccio sul lungo periodo e mirano ad accumulare criptomonete da immettere nel mercato nel momento più favorevole. “Ci sono ovviamente centinaia di farm in Cina – spiega Ivan – ed è difficile per gli europei operare lì: non solo producono l’occorrente, ma hanno lì anche tutte le loro farm. Rischiano di controllare tutto. Noi siamo l’alternativa europea”. Insieme all’Islanda, dove l’elettricità economica “ma il costo del lavoro è molto alto – conclude Ivan-. E poi… c’è il rischio che esploda un vulcano!”. Ride e ci saluta. “Devo andare, mi tocca cercare altre fabbriche dismesse”.