Come gli scatoloni di New York della Lehman Brothers, così le insegne di Banca Etruria. I rampanti trader cacciati dalla fallita banca d’affari sciamano lungo la Settima strada. È una giornata di settembre del 2008 e quell’esodo di colletti bianchi segna una metropoli e un mondo. E così ad Arezzo. Gli operai, sulle scale, staccano dal muro della sede storica le insegne di Etruria ed è finita. Nessuno si fa vedere nei paraggi perché tutto ciò che è solido, per dirla con Karl Marx, “s’è dissolto nell’aria”.
Una città e un’epoca, in quella scena, sono trascinate in un contrappasso se si pensa che l’istituto di credito toscano nato grazie alla Massoneria – “popolare per davvero”, recitava lo slogan – trovi morte per mano santa, con Elio Faralli, lo storico presidente, cacciato in una giornata di votazioni. La banca oggi al centro della polemica politica, fondata nel gennaio 1882 per volontà della laica e atea muratoria – i venerabili della Loggia Cairoli – si schianta coi piissimi amministratori, tutti cattolici, giammai tegolati nelle officine delle Obbedienze (se non le favoleggiate 42, o 24, quantomeno le tre riconosciute: Regolari, Palazzo Giustiniani e Piazza del Gesù).
Una data, il 6 maggio 2014, marchia il tonfo. Quel giorno, quando l’Etruria è in agonia al punto che il democristiano Giuseppe Fornasari consegna le spoglie della presidenza a Lorenzo Rosi nel tentativo non riuscito di praticare la dolce morte. Etruria infatti fu aperta ai lucrosi affari da Faralli, classe 1922, che dopo il suo ventennio d’oro iniziarono a diradarsi quando nel 2005 accolse nel board il Fornasari, già sottosegretario all’Agricoltura.
Con Fornasari tramonta un mondo e s’annuncia un altro. Esulta la città bianca e tutto il contado che fu dominio di Amintore Fanfani e che nel 2009, l’anno del trapasso ufficiale, coglie di felicità il Nipotissimo Giuseppe, sindaco prima, e oggi posto da Matteo Renzi a sorvegliare il Csm. Là dove il massone propone, santa Chiesa dispone. Un dettaglio ovviamente simbolico, questo del Diavolo e dell’Acqua Santa. E due, in città, sono gli orizzonti. Uno è quello della Croce Bianca, l’associazione di volontariato di via dell’Anfiteatro – ed è la confraternita cui s’affida chi vuol farsi cremare e senza un prete intorno – all’altro confine, invece, c’è La Misericordia. E a questa, invece, si rivolge chi vuole l’aspersorio e poi farsi sotterrare.
Nessuna sfera Celeste ha tratto in tranello il Grande Architetto dell’Universo, o viceversa. L’Opus Dei vanta comunque una più trascinante influenza nella città che resta pur sempre quella della Villa Wanda di Licio Gelli. Lui è il Cagliostro a noi contemporaneo ma nella contrada prima, in Italia, dell’oro, il metallo della cerca alchemica, una suggestione come questa – Chiesa batte Loggia – risulta quale coincidenza ribalda.
Il personaggio chiave che ad Arezzo si forma e che alla comunità dà forma, in virtù della sua missione pastorale, è Sua Eccellenza il vescovo Gualtiero Bassetti. Oggi è un’Eminenza Reverendissima, nonché presidente della Conferenza Episcopale, un uomo giustamente lodato, quercia cui s’è aggrappata, peggio che edera, la cerchia del Cda di Etruria nel momento in cui, aprendosi la voragine, la petrosa sostanza va a incontrare la profezia di Karl Marx: “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”. O nella polvere.
Nelle pizzerie aretine, come al Fogher, si può gustare la Pizza del Sultano. Costa 48 euro, servizio escluso. È guarnita con pistilli di zafferano e si fa pagare assai in virtù di una generosa spolverata: oro gourmet da 23 kt. L’oro è il cuore segreto di questa città. La stessa Boschi, a pensarci, s’è cacciata nel guaiaccio a tutti noto a causa dell’ambito metallo. Ebbe a brigare, infatti – forte del suo ruolo – affinché Etruria non avesse a fondersi con la Banca Popolare di Vicenza “con grave nocumento per la sua industria, la lavorazione dell’oro”. Giusto Vicenza – quando si dice il dettaglio – che è l’altra città d’Italia degli orafi. Questi che hanno per nonni gli etruschi – Maledetti toscani, direbbe Curzio Malaparte – difficilmente vanno all’inferno se non ci vogliono andare. Fieri lavoratori, elegantoni per via dell’outlet Prada a Montevarchi – Patrizio Bertelli, il padrone del marchio, è un illustre aretino – luccicano come l’oro.
I giovanotti – detti pottoni, o pottini – a Firenze li riconoscono per via dei “pantaloni con l’acqua in casa”, ossia il risvolto alto. Gonfiano i petti, tutti, all’Equestrian Centre, o al Circolo del golf. Mentre le signore ad Arezzo osano l’eleganza di chi ha familiarità col casentino, ovvero il cappottino rosso dalla cardatura rinascimentale reso celebre da Audrey Hepburn e che fa dire: “Altro che pelliccia!”. Il Rinascimento è nel sangue. Ivana Ciabatti, imprenditrice e orafa, si guadagna l’appellativo di Crudelia Demon per le sua personalità più che per difettacci di carattere. Anna Lapini, presidente della Confcommercio, allo stesso modo, sempre molto fashion, è chiamata Il Diavolo veste Prada. E le somiglia pure! È una signoria, quella delle donne, nella “città del silenzio”. Clelia Galantino, la presidente del Tribunale, stampa un’ordinanza e chiede alle signore in transito di “vestire decorosamente”. Niente tacco 12, niente scollature e niente minigonne.
Le studentesse del glorioso Liceo Petrarca – lo ricorda Carlotta Andrea Buracchi, studiosa della massoneria femminile – “entrano alla seconda ora, a scuola, per non mancare l’appuntamento col parrucchiere al mattino”. Cartelle Louis Vuitton, l’ultimo sandalo Gucci, le alunne diventano ragazze da marito e però con la lesta malia de’ tempi nuovi: “Non cucinano più come le loro madri, in compenso bevono come i loro padri”.
Si scherza al Caffè dei Costanti. “Il bar di Gelli” dice Marco Grotti. Barman, Grotti, ha il senso degli affari: “fare a Villa Wanda il museo della Massoneria”. E anche una sana pietas contadina. Il suo happy hour, è luculliano. Gli avventori, con un solo bicchiere, prendono e riprendono dal buffet: “Non è un aperitivo, è welfare”.
Luccica ogni allusione ad Arezzo. L’oro è il caveau cittadino, la foto segnaletica della comunità. È una messa a dimora, l’oro. È la roba accumulata fin da piccoli: i lingottini regalati per la comunione e poi per le altre occasioni festive.
È una cosa potentemente seria, l’oro, anche se fa ridere quando viene plasmato secondo i gusti del mercato africano o saudita: certe falene, in forma di anelli – farfalle o gru in fogge pacchiane – impossibili da regalare. Sono bracciali, collane, catene – da cui il verbo, catenare – e monili di varie fogge e di dozzinale fantasia. Tutti destinati al bazar degli emirati.
Arezzo, regina delle quattro vallate che si riunisce sotto il suo magistero, ha le mani callose destinate alla sua principale incombenza. Non ozia, semmai discute di affari, non prega, al massimo si genuflette. E all’arte, al suo Duomo, al Crocifisso di Cimabue, a Piero della Francesca, preferisce la fiera, il mercato, il commercio.
Gli aretini sono ruvidi come quei ravioli impastati con grano duro, e diffidenti. Non amano guardare il mondo, non sono infatti grandi viaggiatori. E fino a quando la banca ha retto, non gradivano granché avere ospiti in giro.
Sarà la crisi, sarà che il mondo è cambiato e anche loro devono aggiustare il tiro e immaginare, come il sindaco Alessandro Ghinelli auspica, un nuovo mercato: “È venuto il tempo di aprirci al turismo, di fare sul serio; noi aretini forse siamo lenti, ma se ci applichiamo non abbiamo paura di nessuno. Sapremo far valere le nostre meraviglie; in fondo siamo mercanti”.