Questa è l’incredibile storia di cinque metalmeccanici retribuiti a stipendio pieno, senza l’obbligo di avvitare un bullone. Pagati per starsene a casa dalla Fiat, oggi Fca, tanta è la paura che ha l’azienda di trovarseli di nuovo tra i piedi. Incredibile perché i cinque non accettano di esser pagati per far niente: «Siamo operai, vogliamo tornare in fabbrica».
Lo scrivono a Marchionne da mesi, ogni mese. Da quando il Tribunale, a settembre 2016, ha dichiarato illegittimo il loro licenziamento. Marchionne non risponde e continua a pagare, ma i soldi non bastano a comprare il silenzio e l’obbedienza di Domenico Mignano, Marco Cusano, Antonio Montella, Massimo Napolitano e Roberto Fabbricatore.
Per questo domani andranno al Quirinale e consegneranno una lettera a Sergio Mattarella: “Caro Presidente, siamo cinque operai della Fca di Pomigliano. Abbiamo subito licenziamenti per la nostra attività sindacale sempre in difesa dei diritti degli operai. Siamo stati ufficialmente reintegrati nel posto di lavoro con la sentenza del tribunale d’Appello di Napoli del 20/09/2016. La Fca ha continuato, però, a tenerci fuori. Noi, caro Presidente, ci rivolgiamo a Voi per denunciare l’ennesimo sopruso che la Fca sta compiendo nei nostri confronti, ma anche nei confronti di tutti i nostri compagni che, per paura delle conseguenze che noi abbiamo patito, hanno timore di far valere le loro ragioni”.
Cosa hanno fatto di così imperdonabile le cinque tute blu da meritare l’allontanamento coatto? Due cose. La prima, è che si sono ribellati con ironia, invece che con la violenza, che avrebbe fornito all’azienda il pretesto per licenziarli. La seconda è che hanno vinto, perché in Italia vige la libertà di pensiero, di critica e di satira.
Alla satira da impugnare come arma per la lotta sindacale hanno pensato dopo che tre di loro si sono tolti la vita, piegati dalle condizioni di lavoro in quello che chiamano “Il reparto-confino” di Nola. L’ultima è stata Maria Barbato, cassintegrata a zero ore. Si è uccisa piantandosi tre volte il coltello nel petto. E lasciando scritto: “Non si può vivere sul ciglio del burrone dei licenziamenti”. Per denunciare quel vivere sul ciglio del baratro non bastavano gli scioperi che nessun telegiornale racconta più, o “i cortei dove le prendiamo e basta”, o i picchetti che l’azienda aggira con gli elicotteri. Serviva una cosa che spaccava, serviva la satira. Hanno inscenato il suicidio di un quarto lavoratore Fiat: l’Ad Sergio Marchionne, sventolando un manichino penzolante davanti alla sede della Rai. Hanno letto la lettera d’addio che il fantoccio-Marchionne, in preda al rimorso, lasciava ai suoi operai, chiedendo che i 316 deportati a Nola tornassero a Pomigliano, dove c’erano interi reparti vuoti. “È un’istigazione al suicidio!”, ha tuonato l’azienda.
I cinque sono stati licenziati, trascinati in tribunale, condannati dal giudice unico. Hanno fatto appello, chiedendo a tanti autori satirici di schierarsi al loro fianco: Moni Ovadia, Ascanio Celestini. Hanno srotolato uno striscione con scritto “Libera Satira” davanti alla Rai di Viale Mazzini, quando avevo scelto di abbandonare Radio2, dopo che la rete mi aveva chiesto di non fare più battute su Renzi e non far più satira politica a “Mamma Non mamma”, il programma che conducevo: “A noi operai ci avete tolto la vita, non toglieteci pure la satira”.
Il giudice gli ha dato ragione: “Il monito rivolto ai successori dell’attuale amministratore delegato Sergio Marchionne, di non pensare solo al profitto ma anche al benessere dei lavoratori rappresenta a parere della corte una legittima manifestazione del diritto di critica”, è scritto nella sentenza d’appello: “La rappresentazione scenica realizzata, per quanto macabra, forte aspra e sarcastica, non ha travalicato i limiti di continenza del diritto di svolgere valutazioni critiche dell’operato altrui, quindi anche del datore di lavoro”. Il diritto di critica e di satira, a partire da quella sentenza, è garantito allo scrittore come all’operaio.
Una vita che faccio satira e a cosa serve non l’ho mai saputo spiegare meglio di Domenico Mignano detto Mimmo. A fare in modo che tutti si accorgano di quello che ci sta succedendo. “Se ne accorgerà anche Mattarella, quando andremo da lui vestiti da Befana”. Da befana, perché i lavoratori sono diventati invisibili, ma di befane saranno pieni i Tg: “Caro Presidente, noi vi chiediamo di far sentire la Vostra autorevole parola affinché finalmente noi cinque si possa rientrare in fabbrica accanto ai nostri compagni operai”. Gli avvocati dicono che non si può, che non ci sono precedenti di un operaio che voglia tornare alla catena di montaggio piuttosto che starsene a casa, pagato: “Ma che c’è di strano, se un lavoratore chiede di lavorare?”.