L’Italia sta diventando una Repubblica fondata sul caporalato e tutti fanno finta di nulla. È dunque solo un’eccezione (positiva) che conferma la regola (orrenda) il fatto che venerdì pomeriggio – proprio mentre il ceto politico si scannava a Roma sulle liste – Pier Luigi Bersani fosse a Castelnuovo Rangone (Modena) a parlare con i licenziati della Castelfrigo. Alla grossa azienda di lavorazione della carne di maiale, Giulia Zaccariello ha dedicato un’incisiva inchiesta su ilfattoquotidiano.it.
I servizi di logistica sono stati appaltati a due cooperative, la Work Service e la Ilia D.A. che fanno lavorare manodopera straniera in condizioni bestiali. Questi uomini né liberi né uguali provenienti dall’Africa, dalla Cina, dall’Albania, hanno provato a ribellarsi contro turni di lavoro sottopagati che possono arrivare anche a 14 ore. Al culmine di un lungo sciopero sono arrivati 127 licenziamenti. Poi il colpo di scena: un accordo separato tra la Cisl e l’azienda ha portato alla riassunzione di 52 dei 127 licenziati, scelti accuratamente tra chi non aveva scioperato. Daniele Donnarumma, esponente della Cisl tanto fiero dell’accordo da diffondere un comunicato con foto allegata, dopo aver manifestato preoccupazione per il “danno d’immagine” subito dalla Castelfrigo, ha spiegato la sua posizione: “L’azienda ha scelto chi far rientrare. È vero che il diritto di sciopero è sacrosanto, ma c’è anche il diritto di impresa di scegliere chi assumere”. Questo è il sindacalista.
La storia scandalosa della Castelfrigo è precipitata nelle ultime settimane ma è all’ordine del giorno da anni insieme a centinaia di casi analoghi. Già due anni fa il deputato modenese del Pd Stefano Vaccari ha presentato un disegno di legge per il contrasto delle cosiddette cooperative spurie, naturalmente finito nel nulla. Bersani venerdì è andato oltre, facendo notare che “questa degradazione micidiale dei diritti del lavoro” avviene anche perché “la somministrazione impropria e fraudolenta di manodopera” era un reato fino a quando il mai troppo lodato Jobs Act non l’ha retrocessa a illecito amministrativo. Il padre del Jobs Act, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che è nato e cresciuto a 80 chilometri dalla Castelfrigo, è stato per una vita dirigente delle cooperative e quindi sa tutto da sempre, deve aver depenalizzato il caporalato a sua insaputa. Quando ha fatto finta di scoprire il problema, alla vigilia di Natale, ha subito tuonato: “Chi propone prestazioni di lavoro a costi ridotti e chi le utilizza deve sapere che sta facendo un’azione illegale. Su questo non ci sarà tolleranza”. Troppo Lambrusco, come direbbe Bersani. Chi fa quelle porcate lo sa già, chi le subisce lo deve sapere: il governo Renzi le ha depenalizzate. Poletti telefoni a Bersani e si faccia spiegare come rimediare a questa vergogna del Jobs Act.
È bene che i più giovani, sfruttati e disoccupati ricordino da dove viene questo inferno. Il 19 marzo 2002 il giuslavorista Marco Biagi è stato ammazzato a pistolettate sul portone della sua casa di Bologna perché individuato dalle nuove Brigate Rosse come ispiratore della legislazione che avrebbe favorito la precarizzazione del lavoro. Dopo la sua morte, il governo Berlusconi si affrettò a varare la legge a cui Biagi stava lavorando, che per questo porta il suo nome. In quella legge (meglio ripeterlo: studiata da Biagi e varata da Berlusconi), si istituiva il reato di “somministrazione fraudolenta” del lavoro, “posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo”. Il Jobs Act ha abolito il reato: ha istituzionalizzato il caporalato chiamandolo mercato. E a difendere la civiltà della razza bianca devono pensarci i nuovi schiavi ghanesi.