“Mi ha detto più di una volta ‘ma che campo a fare?’”. Alberto è sgomento. Suo fratello è rinchiuso nel carcere di Regina Coeli da luglio. Ma in galera lui, che è un paziente psichiatrico, non ci dovrebbe stare. Con la legge 81 del 2014, che ha portato al superamento degli opg (gli ospedali psichiatrici giudiziari), la riabilitazione dei malati psichiatrici autori di reato deve avvenire all’interno di strutture sanitarie, come le Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), e non più presso istituti penitenziari (quali erano gli opg). Una grande conquista di civiltà del nostro Paese che però a distanza di quasi quattro anni è ancora disattesa. “Nella perizia dello psichiatra c’è scritto che potrebbe avere istinti suicidi eppure continua a rimanere lì dentro”, non si dà pace Alberto. Il giudice ha previsto per suo fratello il trasferimento in una Rems ma la lista di attesa è troppo lunga. “Non si sa quando uscirà, nessuno sa dircelo. Ha 41 anni, è incensurato, soffre di un disturbo delirante da quando era ragazzino ma non ha mai riconosciuto di stare male. I miei genitori lo hanno denunciato perché li ha aggrediti. Speravano che così qualcuno si prendesse cura di lui, loro sono anziani e non ce la fanno più. Mio fratello non ha mai lavorato, ma almeno fuori aveva una band. In cella, invece, è completamente in preda ai suoi deliri”.
Alberto e la sua famiglia sono senza speranza: “Sembra di combattere contro i mulini a vento, la riforma è rimasta sulla carta”. Questo non è un caso isolato. Nelle carceri italiane, ci comunica il Dap, in questo momento ci sono 56 pazienti psichiatrici in attesa di essere spostati in una struttura sanitaria. Solo a Roma sono 14. Tredici in tutta la Campania e cinque in Lombardia. “È una situazione illegittima, lo so”, ammette Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti del Dap. Il cortocircuito che si sta creando è micidiale. “Troppi internati non realmente pericolosi affollano le Rems e alimentano le liste d’attesa, fino all’abuso del trattenimento senza titolo in carcere”, spiega Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio. Colpa dell’atteggiamento difensivo di certi giudici che per cautelarsi dispongono il ricovero nelle Rems, senza valutare percorsi di terapia alternativi con i servizi sanitari e sociali del territorio.
Il Csm, con una delibera del 12 aprile 2017, ha evidenziato l’uso inappropriato delle Rems, ricordando che rappresentano delle soluzioni estreme, eccezionali, quando ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate. “Ci sono troppi casi di ricoveri ingiustificati. Si tratta di persone non pericolose per la società che potrebbero tornare in famiglia o andare in comunità”, dice Giuseppe Nese, psichiatra dell’Asl di Caserta, che coordina il tavolo Rems in Conferenza Stato-Regioni. Felice Nava, psichiatra nel carcere di Padova e membro degli Stati generali per l’esecuzione penale, chiarisce che la condizione di “pericolosità sociale” impiegata nel diritto – per cui il malato viene spedito in Rems – risale addirittura al codice Rocco del 1930: “La scienza, da allora, ha fatto moltissimi progressi e quella definizione, che appartiene all’ambito clinico, andrebbe aggiornata. Le Rems non possono diventare un pozzo senza fondo. Serve un cambiamento culturale da parte dei magistrati”. Attualmente in Italia sono attive 30 Rems, da circa 20 posti letto l’una, e sono tutte intasatissime. I malati vengono parcheggiati in cella per sette/otto mesi in media. Ma c’è a chi va peggio. Paolo, 34 anni, schizofrenico, dopo che il tribunale lo ha scagionato con una sentenza definitiva, è rimasto nel carcere di Salerno per altri dieci mesi. Il 23 novembre, con oltre un anno di detenzione alle spalle, finalmente è stato trasferito in una casa di cura. “Lo spirito della riforma non è stato incarnato bene, ci sono tutti gli elementi per fare ricorso ai magistrati”: la denuncia arriva proprio da uno di loro, Francesco Maisto, già presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna. Lo psichiatra Nese parla di “riforma applicata quasi al contrario” e sottolinea che “la priorità non deve essere la detenzione ma la tutela della salute”. “Dopo aver aperto i manicomi – continua – ora non possiamo tornare indietro, rinchiudendo i pazienti. Più lo spazio è stretto, più il malato si agita e aggrava il suo stato mentale. Gli spazi vanno aperti se vogliamo salvare queste persone”. Il rischio è che qualcuno ridotto in quelle condizioni si ammazzi. Il caso di Valerio Guerrieri, morto suicida a 21 anni nel carcere di Regina Coeli, non deve ripetersi. Valerio dieci giorni prima di impiccarsi era stato scarcerato dal tribunale per incapacità di intendere e di volere. E per un reato precedente il giudice aveva chiesto per lui sei mesi di Rems. Ma lo stesso giorno Valerio, da uomo libero, è tornato dietro le sbarre. Il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura a novembre ha chiesto all’Italia spiegazioni sul caso Guerrieri. L’associazione Antigone, a metà gennaio, ha lanciato un appello per l’immediata scarcerazione di un altro ragazzo, recluso nella Casa di lavoro di Vasto, affetto da epilessia cronica e schizofrenia paranoide, che ha sviluppato tendenze suicide. Il provvedimento del magistrato di sorveglianza anche in questo caso dispone il ricovero in Rems, ma non può essere eseguito perché non ci sono posti liberi.