Se un giorno mi avessero detto che avrei trascorso la sera di un giovedì di carnevale ascoltando alla radio La vedova allegra in tedesco non ci avrei creduto. E invece anche questo succede nelle trame infinite che portano a parlare di mafia e antimafia nelle scuole. Non in Sicilia, a Bolzano, città di confine andata sui giornali come collegio sicuro per Maria Elena Boschi ma che qui giurano che tanto sicuro non sia.
Cose secondarie se comparate con la storia di Luisa, che in occasione del cinquantennio dell’anno formidabile 1968, anziché celebrarne i fasti, continua a gettarne i semi. Soprattutto al Liceo Carducci, che nella città frontiera marca identità e cultura italiana. Insegnamento di storia e di filosofia. “Vuoi sapere del mio ‘68? Ma io allora avevo 14, 15 anni e vivevo a Riva del Garda. Praticamente non ne sapevo nulla. Adolescente io, del tutto marginale il paese in cui vivevo. I miei erano albergatori. Facevo vita agiata e ignara. Per dire: quando a me che mi dilettavo di danza ed equitazione la mia insegnante propose una musica per Jan Palach, io non capii praticamente niente. Non sapevo nulla di quello studente che si era trasformato in torcia umana contro il regime di Praga. Capii dopo, quando arrivai a Milano nel ’72, dopo avere fatto una tesina di maturità su Gramsci. E allora scoprii all’università i miei maestri, tra tutti Mario Dal Pra, il più grande, che mi avviò alla filosofia”. Luisa non ha più lasciato quella strada. Studentessa impegnatissima negli anni 70, confessa volentieri di avere avuto una vita movimentata. Dal primo matrimonio fino all’unione con Sandro, insegnante di greco e di latino: insieme, un diluvio di libri e di scaffali da stordire anche un ladro.
“Come sono arrivata fin qui? Semplice, il mio primo marito era napoletano e andai a stare con lui, ancora fresca di speranze rivoluzionarie. Frustrate rapidamente dalle graduatorie, quelle per andare a insegnare nelle scuole intendo. A Napoli c’era un tariffario per ottenere le prime posizioni. E ci veniva anche detto. Mi sembrò pazzesco. Così cercai posti al Nord, e venni sulle montagne vicino Trento. Poi Trieste, e la provincia di Bolzano. Anche per stare più vicina ai miei. E il matrimonio si sfaldò”. In fondo l’amore della sua vita è stata la filosofia. Non immaginatevi però una filosofia qualunque. Luisa ha passioni da tramortire gli sprovveduti come il sottoscritto. Uno dei suoi libri è Il colore delle cose, sottotitolo “La grammatica del concetto in Husserl e Wittgenstein”. Al colore dedica riflessioni che portano diritti ai problemi classici della filosofia, “essenza e fenomeno, mondo e linguaggio”. Un’intera, grande parete della cucina è stata trasformata in galleria per quadretti di tutti i colori possibili.
Studi la signora flemmatica e gentile e non ti sembra certo il prototipo dell’ex sessantottina. Eppure contestava, anche se preferiva farlo nel mondo dell’università e si sentiva fuori posto quando la mandavano davanti alle fabbriche o c’era da ingaggiare scontri, nessun piacere militare per le barricate. Avverti però lo spirito di allora nella voglia permanente di scardinare regole, quelle delle burocrazie come quelle della mente. Nella critica tagliente alla politica mediocre e opportunista, proprio non ci sta ad accucciarsi nel meno peggio. Nell’idea che la società debba cambiare per un flusso collettivo di impegni personali, come il suo, che la porta a volere discutere di mafia nella provincia che ne ha meno e che per giunta si sente meno italiana di tutte. Ascolta attenta la lezione nell’aula magna della scuola, scrutando come sempre si dovrebbe le espressioni degli studenti. Che reagiscono chiedendo. Che cosa può fare lo Stato, se li intercettano perché non li arrestano, gli effetti del proibizionismo, se lo Stato frena la lotta alla mafia.
E soprattutto perché i clan mafiosi fanno del male alla loro terra, devastandola e inquinandola. Una professoressa, Giovanna, legge brani commoventi da un libro per commuoversi lei stessa. Parla delle donne contro la mafia e le studentesse si entusiasmano. Alla fine qualcosa è ben accaduto nell’“acquario” o nella città “asettica come una sala operatoria”, per usare le espressioni di due insegnanti. È il bello di quella stagione: che al di là dei capi e di chi sempre la rivendica ha immesso nel corpo del paese una generazione che, senza rivendicarla, è rimasta battagliera a vita. Gente che, passati i sessanta, ancora si dà da fare perché pure Bolzano parli di mafia.