La paura, si sa, tende a fare brutti scherzi. Senza dire che, caso mai uno fosse superstizioso, bisogna fare i conti pure con un’angosciante coincidenza di date (4 dicembre-4 marzo). Sarà per questo che il nostro coriaceo Matteo Renzi si mostra, in questi ultimi scampoli di campagna elettorale, assai confuso. Anzi, proprio smemorato.
Lunedì mattina, durante un’intervista a Sky, ha spiegato che anche in caso di sconfitta lui non farà passi indietro. E qui, si badi bene, per sconfitta non s’intende che i Cinque Stelle saranno il primo partito o il centrodestra la prima coalizione, ma che il Pd scenderà sotto la soglia di sopravvivenza del segretario, che si è abbassata dal 25% di qualche tempo fa (la cosiddetta “soglia Bersani”) al più recente 20. Gli ultimi sondaggi davano il Pd al 22%: sono solo sondaggi, vero, ma del resto lo erano anche quelli che davano il No in netto vantaggio, nonostante la propaganda del Nazareno facesse trapelare notizie trionfali sul successo del Sì.
Sorti personali a parte (saranno poi fatti del Partito democratico e dei suoi militanti), Renzi è tornato a parlare proprio del referendum: “Se il 5 marzo non ci sarà maggioranza è anche perché si è voluto dire di no a una riforma costituzionale che semplificava il sistema elettorale”. Oibò. E pensare che noi eravamo proprio convinti di aver votato contro l’abolizione del Senato eletto dai cittadini e lo stravolgimento di un terzo della Costituzione, riscritta così male che manco il libretto d’istruzioni della lavatrice. In realtà Renzi stesso era convinto che il quesito riguardasse, come in effetti era, la riforma costituzionale.
Guardate cosa diceva il 9 giugno 2016, ancora premier, mentre si trovava al summit Nato di Varsavia: “Edi Rama, il premier albanese che ogni mattina legge tre giornali italiani, mi dice: dai Matteo e cambiala questa legge elettorale se vuoi vincere il referendum. Ho dovuto faticare non poco per fargli capire che il referendum non è sulla legge elettorale, è su altro, sulla riduzione del numero dei parlamentari, sulla fine del bicameralismo, chi vota Sì è per cambiare le cose, chi vota No le lascia come sono oggi con il Parlamento più costoso e con le procedure più contorte fra tutti i Paesi Nato”. E aggiungeva: “Non essendo oggetto del referendum non capisco perché si colleghi la legge elettorale con il referendum”. In effetti quella legge elettorale, l’Italicum, era stata approvata a colpi di fiducia nel 2015 con un’entrata in vigore differita a luglio 2016.
Al di là di tutto, bisognerebbe dotare lo smemorato del Nazareno di qualche post-it: l’Italicum (disegnato con un premio di maggioranza che scattava al superamento del 40%, cioè sulla base della vittoria del Pd alle Europee 2014) valeva comunque solo per la Camera. E in ogni caso la legge che “mezza Europa” ci avrebbe copiato (dichiarazioni di Renzi e Boschi, marzo 2015) è stata dichiarata incostituzionale dalla Consulta un anno fa, motivo per cui è stata partorita – in fretta e furia e sempre a colpi di fiducie parlamentari – questa meravigliosa nuova legge detta Rosatellum con cui ci apprestiamo a votare domenica. Ma, ancora prima di venire battezzata, già si parla apertamente di cambiarla perché “produce ingovernabilità”. Addirittura si dice che potrebbe essere l’oggetto sociale di un eventuale governo di scopo: rifare la legge elettorale e poi tornare al volo alle urne.
Domanda ai cosiddetti leader: ma voi, oltre a prenderci in giro con dichiarazioni che stravolgono la realtà dei fatti, esattamente che lavoro fate?