Donald Trump è sicuro che le guerre commerciali siano “facili da vincere” e ne scatena una contro gli alleati europei, oltre che contro gli arci-rivali cinesi, nonostante reazioni a catena negative (e preventive) dentro la propria Amministrazione e nel partito repubblicano. Usando il potere d’adottare misure per tutelare la sicurezza nazionale, il presidente mette dazi sull’import di acciaio e alluminio. E divide gli alleati tra buoni, quelli esentati o esentabili dalle misure, e cattivi, quelli colpiti, mischiando i livelli commerciale, di sicurezza, politico: così, la Germania è nella lista dei cattivi perché non fa abbastanza, cioè non spende abbastanza, per la difesa della Nato.
È un altro modo di declinare il motto trumpiano ‘America first’, anche se non è il modo migliore per declinare l’altro motto: ‘Make America great again’. Perché le guerre commerciali sono magari facili da fare, ma in realtà non le vince quasi mai nessuno e ci perdono sempre tutti. Non c’è niente di nuovo né di audace in una guerra dell’acciaio tra Usa e Ue: conflitti del genere, se ne combattevano già quando l’Ue era ancora Cee. Ma le guerre dei dazi non hanno impedito all’acciaio americano ed europeo di perdere terreno di fronte a quello cinese, indiano, brasiliano.
Trump continua a ignorare le organizzazioni internazionali – non vorrebbe trattare con l’Ue, ma con i singoli Stati – e gli impegni sottoscritti – ‘esenta’ dalle misure Canada e Messico, facendo come se il mercato comune nord-americano, il Nafta, non esistesse. Ma la reazione dei globalisti, che un tempo di sarebbero detti liberisti, non si fa attendere.
Le scelte di Trump paiono più contraddittorie che mai. I dazi piacciono al sotto-proletariato bianco di Pennsylvania e Ohio, che vi vede una difesa di posti di lavoro perduti per sempre (e che l’industria non tiene a recuperare). Ma arrivano mentre il presidente delude gli stessi elettori spingendo per controlli sulle vendite delle armi – proprio ieri, la Florida ha introdotto limitazioni.
I dazi spaccano ulteriormente la Casa Bianca e la maggioranza repubblicana, tradizionalmente liberista. Senza aspettarne l’ufficializzazione, se n’è andato il consigliere economico Gary Cohn, convinto globalista, che Trump ipotizza – non si sa su che basi – possa tornare. Il New York Times scrive che l’esodo di consiglieri ed esperti lascia il presidente sempre più incline a seguire l’istinto. Il che è un rischio per lo stesso Trump, che, a esempio, non dà ascolto ai suoi avvocati e vuole sapere dalla persone sentite nelle indagini sul Russiagate che cosa hanno raccontato agli inquirenti.
I nomi dei potenziali sostituti di Cohn fanno rabbrividire: Peter Navarro, un ‘falco’ protezionista, consigliere per le politiche commerciali, si chiama fuori, forse solo per non essere bruciato. O Larry Kudlow, ex consigliere di Reagan, attualmente consulente esterno – critico però sui dazi – e il direttore del Bilancio Mick Mulvaney, un ex congressman repubblicano, mai uscito allo scoperto sui dazi.
Nella maggioranza repubblicana di Camera e Senato, c’è fermento. Oltre cento deputati chiedevano a Trump di lasciare perdere, nel timore delle inevitabili ritorsioni europee e cinesi che potrebbero colpire i loro collegi. L’Ue ha già pronta una batteria di misure, che vanno dai prodotti agricoli alle Harley Davidson. La Cina avverte che “una guerra commerciale è una cattiva medicina”: più d’una scaramuccia verbale. Ma il presidente s’esalta sfidando d’un colpo solo mercati, ministri – Dipartimento di Stato e Pentagono sono preoccupati –, istituzioni finanziarie e comunità internazionale.