Pochi giorni fa l’Aeronautica Militare ha annunciato con orgoglio l’entrata in servizio del primo F-35 tricolore. Peccato che il nuovo cacciabombardiere, pagato la bellezza di 150 milioni di euro, così com’è non serva praticamente a nulla: vola e basta. Almeno di non spendere altre decine di milioni per aggiornare il suo computer di bordo. Lo stesso discorso vale per tutti gli F-35 pre-serie comprati dall’Italia: dieci già consegnati e un paio in arrivo.
A settembre il responsabile americano del programma, il viceammiraglio Mathias Winter, aveva ipotizzato la rottamazione degli F-35 prodotti finora a causa degli eccessivi costi di retrofit necessari per renderli utilizzabili. Mercoledì scorso, nel corso di una sua nuova audizione al Congresso, è venuto fuori che garantire l’operatività dei primi 360 aerei consegnati finora e in consegna quest’anno (Lotto 10) costerà la modica cifra aggiuntiva di 16 miliardi di dollari. “Una cifra incredibilmente alta che supera largamente ogni passata stima fornita al Congresso”, ha commentato la rappresentante democratica della commissione Difesa americana, Niki Tsongas. Così alta che, nel corso dell’audizione, il generale Usaf Jerry Harris l’ha dichiarata incompatibile con l’attuale budget dell’aeronautica americana.
Tutti questi soldi servono per pagare la cosiddetta fase C2D2, acronimo di Continuous Capability Development and Delivery (sviluppo e fornitura di capacità continuativi), consistente in aggiornamenti di software da installare sugli aerei ogni sei mesi per i prossimi sette anni per correggere gli errori e colmare le mancanze di programmazione così da portarli allo standard operativo “Block 4”, che dovrebbe essere di serie sui futuri modelli. Un piano giudicato irrealistico dallo stesso Pentagono per i tempi e i modi della sua realizzazione e fatalmente destinato a incontrare ulteriori rallentamenti e aumenti di costi.
Quanto toccherà pagare all’Italia? Rimanendo all’ottimistica stima di 16 miliardi di dollari, il viceammiraglio Winter ha spiegato che la quota a carico di partner e clienti stranieri del programma sarà di 3,7 miliardi di dollari. Poiché gli F-35 non-americani da aggiornare sono in tutto una novantina, si tratta di circa 40 milioni di dollari in più ad aereo. Quelli italiani bisognosi di aggiornamento sono dodici, il che significa quasi mezzo miliardo di dollari in più.
Fin qui si è parlato del software degli aerei, che è solo uno dei difetti che rende l’F-35 una macchina di fatto inutilizzabile. Poche settimane fa, infatti, il nuovo direttore dei test operativi del Pentagono, Robert Behler, ha denunciato in un rapporto al Congresso Usa che, nonostante gli ingenti investimenti di riprogettazione fatti negli ultimi anni, i principali problemi non sono stati ancora risolti: il nevralgico sistema di supporto operativo Alis (Autonomic Logistics Information System) non funziona, così come il sistema di puntamento ottico del casco e i sistemi di lancio di bombe e missili aria-aria, la mitragliatrice di bordo che spara storto e fa impennare l’aereo, il respiratore del pilota che causa ipossia e perfino i pneumatici della versione da portaerei (il primo consegnato un mese fa alla Marina Militare italiana) che sono da buttare dopo solo dieci appontaggi.
Nessuno sa quanto costerà risolvere questi difetti. Di fatto, gli F-35 pre-serie prodotti finora, compresi i dodici comprati dall’Italia, sono dei prototipi inutilizzabili che, nella migliore delle ipotesi, potranno diventare parzialmente operativi tra molti anni e solo ad un prezzo incalcolabile. Per questo la Germania, nonostante il crescente pressing di Washington, continua a rifiutarsi di comprare gli F-35 e perfino la Gran Bretagna valuta di prenderne meno del previsto. Cosa farà il prossimo governo italiano?