Un un recente grottesco romanzo, Gli ultimi giorni di Vladimir P. (Michael Honig, ed. Frassinelli), si racconta la lenta fine di un Putin vecchio, malandato e demente; siamo nel 2032, Volodja, l’ex presidente, ha ottant’anni, è sempre più incattivito, paranoico, ossessionato dai fantasmi del suo passato; è imbottito di farmaci, soffre di allucinazioni. Spesso parla a poltrone vuote sulle quali solo lui vede seduto l’odiato ministro delle Finanze che è diventato presidente. Vladimir è confinato in una dacia poco lontano da Mosca, a Novo-Ogarevo. Poco è cambiato, dai giorni nostri: il contesto del futuro prossimo è infatti purtroppo familiare: corruzione, dissidenti incarcerati, oligarchi avidi, ministri che rubano, giornalisti ammazzati, cineasti in galera, il popolo che stringe la cinghia. Nello staff che lo cura c’è Stepanin, il cuoco ubriacone. Che un giorno dice: “Vivere in Russia è vivere all’inferno. Se non fosse stato Vladimir a rovinarci, sarebbe stato qualcun altro”. La rassegnazione, quintessenza della tragedia russa.
E quintessenza del voto russo di domenica 18 marzo, quando verrà eletto presidente per la quarta volta il vero e niente affatto demente Vladimir Putin. Un déja-vu. Ormai, il Cremlino e Putin sono un tutt’uno. Un uomo solo al comando. Senza avversari. E chi poteva inquietarlo, come l’avvocato blogger Aleksej Navalny, è stato neutralizzato dalla magistratura. Così, il candidato Putin si è presentato come “indipendente”, affrancandosi da Russia Unita, il suo partito. Campagna soft, pochissimi comizi, nessun confronto in tv – come in altre occasioni – ma tanta promozione e spazio ai successi oggettivi in politica estera. Per avversari sette nani politici, a cominciare dalla famosa star televisiva Ksenija Sobcak, figlia di Anatolij, primo sindaco di San Pietroburgo eletto dopo il crollo dell’Urss, soprattutto mentore politico di Putin.
L’improbabile Ksenija si batte “contro tutti”, ma ha criticato Navalny perché “sostenitore di una linea politica che danneggerebbe gli interessi della Russia”, e la destabilizzerebbe. Guarda caso, quel che dice il Cremlino (in cambio, si dice, la bionda Sobcak otterrebbe la direzione di un canale tv). Navalny, dal canto suo, ha rivolto un appello per disertare le urne, ma è un’arma spuntata. Né hanno migliori prospettive il candidato del Partito Comunista Russo, l’agronomo Pavel Grudinin, o il liberal-conservatore Grigory Yavlinskiy che si presenta per la quarta volta con Yabloko: vuole superare lo “stalinismo mascherato” e il “capitalismo selvaggio al confine col feudalesimo”. Predica rispetto della proprietà privata da parte dello Stato, concentrazione limitata dei beni, economia in sintonia con le imprese. L’esatto opposto dell’economia “diretta dall’alto”, cioè dal Cremlino.
Tutto rose e fiori per Putin? Mica tanto. Nelle grandi città, i giovani, la nuova borghesia e i ceti intellettuali (salvo quelli di regime) non lo voteranno: a Mosca, gli ultimi sondaggi fissano Putin al 57 per cento.
Sono segnali. Che i putinologi pensano siano sintomi di una fragilità del “putinismo”: il complesso intreccio di affari, potere e controllo dei gangli vitali della Russia messa in piedi da Putin e dai suoi si starebbe, insomma, sfilacciando. Per questo, Putin ha rilanciato l’immagine del “presidente forte” per una “Russia forte”. Si accredita come un autocrate muscoloso, in piena forma, l’uomo capace di raddrizzare la Russia con ogni mezzo. Infatti la gestisce come il presidente di una multinazionale che delega le sue funzioni ai dirigenti delle filiali. Nel discorso alla nazione del primo marzo, Putin aveva dinanzi a sé la classe dirigente russa, ma in realtà si rivolgeva alla Casa Bianca quando ha svelato le nuove armi nucleari che “l’America non può intercettare” e che “nessun altro paese al mondo ha o potrà realizzare in breve tempo”.
Toni alla Krusciov. Rilancio dell’orgoglio russo: “Negli ultimi trent’anni abbiamo fatto progressi che ad altri Paesi sarebbero costati secoli”. Il futuro (naturalmente con lui alla guida del Cremlino per altri sei anni, come stabilisce l’opportuna riforma elettorale) riserveranno “fulgide vittorie”, se “saremo coraggiosi nelle aspirazioni, negli obiettivi, nelle azioni”.
Tre giorni dopo, primo vero bagno di folla. In diretta tv dallo stadio. Con 90mila spettatori: manco fosse la cerimonia inaugurale del prossimo Mondiale di calcio. Schierato in campo il “Putin team”, galassia di personaggi famosi: dal regista Nikita Mikhalkov al direttore artistico del Mariinsky, Valerij Gergiev, cantanti, campioni olimpici, attori, star tv. Consacrazione del Putin “padre della patria”. L’unico. “Solo lui è il nostro presidente”, asserisce Mikhalkov. Un’icona pop, secondo i corrispondenti stranieri, che smorza i toni bellici e si trasforma in guru dei russi: “Vogliamo che il nostro Paese sia prospero e guardi al futuro, ai nostri figli e nipoti. Faremo di tutto per renderli felici”. Parola d’ordine, gridata al microfono: “Siamo una squadra, vero?”. E come una squadra di football, i 90mila intonano il solenne inno russo prima della finale.
In verità, serpeggia insofferenza verso la piramide verticale del potere in cui spadroneggiano (nella misura del 70 per cento) ex funzionari ed agenti del Kgb e dell’Fsb (l’intelligence post sovietica). A cominciare da Putin: tenente colonnello nel Kgb e direttore dell’Fsb, prima di diventare capo del governo nel 1999 e capo del Cremlino nel marzo del 2000, dopo Boris Eltsin. Una carriera lampo, misteriosa, enigmatica. Di Putin continuiamo a sapere poco. A chi voleva approfondire, è stata tappata la bocca. Anche per sempre. Vlad rispecchia il Paese? Ognuno, soprattutto nella sterminata periferia dell’impero, si identifica in questo uomo grigio e dall’apparenza ordinaria, vedendoci quello che ci volevano vedere. Nei diciotto anni al Cremlino e dintorni ha domato l’economia, imbrigliato gli oligarchi, e messo il guinzaglio ai media. Guerre. Sanzioni. La questione ucraina, il ritorno ad una nuova guerra fredda, la crisi siriana, il cyberterrorismo, l’avvento di Donald Trump hanno spinto Putin ai vertici dell’attenzione e dei timori globali. Il Cremlino è il rubinetto strategico del gas da cui dipende gran parte delle necessità energetiche Ue. Che Putin desidera meno compatta e meno solidale.
Con l’annessione della Crimea, Putin ha ferito l’Europa e i suoi principii. La Nato circonda la Russia? Replica con i viaggi a Kaliningrad, l’enclave tra Polonia e Lituania, per ammonire che Mosca i missili li ha dentro l’Unione Europea… Esercita ed esporta miliardi coi quali compra la lealtà della burocrazia europea. Crea il trend del sovranismo e del populismo, foraggia le “piccole patrie”, i movimenti estremi: la democratura fondata non sull’aritmetica della democrazia ma sull’esercizio della “verticale del potere”. Fervente ammiratore dei kompromat (dossier compromettenti, marchio di fabbrica del Kgb), se ne serve per interferire nei processi democratici di chi gli vuol tenere testa. Ormai Putin è più di Putin. Crede di essere il burattinaio del mondo. Ma, forse, è prigioniero del suo stesso enigmatico ed opaco labirinto.