Il 16 marzo di quarant’anni fa, le Brigate rosse rapirono in via Fani Aldo Moro e sterminarono la scorta composta da Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi.
Quella mattina passarono a prenderlo e se lo portarono via come se si fossero dati un appuntamento. Nelle ultime due settimane Moro si era esposto troppo, fino a rimanere isolato. Nel corso del discorso ai gruppi Dc del 28 febbraio 1978 aveva forzato il passo per raggiungere l’obiettivo di includere i comunisti nella maggioranza di governo, per la prima volta dal 1947. Un coraggioso atto di imprudenza, forse l’unico e l’ultimo della sua vita politica, in ragione dell’addensamento, in quegli ultimi mesi, delle resistenze del contesto internazionale della Guerra fredda e della vischiosità del fronte interno e degli apparati. Uno strappo che aveva fatto sì che Moro diventasse l’unico personale garante di quell’accordo, mentre nelle stesse ore Enrico Berlinguer diventava sempre più dubbioso e recalcitrante.
Il colpo, secco e feroce, venne da sinistra, dagli esponenti del “partito armato”, ma avrebbe potuto arrivare da destra, dai cosiddetti “strateghi della strategia della tensione” e il risultato non sarebbe cambiato. Per persuadersi di questo meccanismo basterebbe prendere sul serio un articolo premonitore di Pier Francesco Pingitore che uscì nel 1969 sul Bagaglino intitolato “Dio salvi il presidente” in cui venivano descritti, con satirico e informatissimo puntiglio, il percorso che Moro faceva ogni mattina, le sue abitudini, il numero dei poliziotti di scorta, le qualità delle armi da usare per colpirlo, il punto esatto dove sarebbe stato agevole ucciderlo (presso la Chiesa di Santa Chiara secondo il “piano a” e proprio in via Fani secondo il “piano b”). Un articolo minacciosamente premuroso (talora la satira serve a veicolare le veline dei servizi e avvertimenti serissimi) che iniziava ponendosi questa domanda: “Quindici uomini vegliano sulla vita dell’onorevole Moro. Ma sarebbero sufficienti a difenderlo contro un Oswald italiano?”, oppure dal pugnale del fanatico cattolico che uccise nel 1589 il re di Francia Enrico III, il cui omicidio era ricordato in posizione enfatica alla fine dell’articolo, sottolineando come fosse protetto da ben 45 uomini di scorta e non solo 15 come Moro.
In realtà l’operazione ordita dalle Brigate rosse nove anni dopo l’uscita di questo scritto si sarebbe rivelata più raffinata: non un semplice regicidio, come quelli avvenuti più volte nella storia, a partire da Giulio Cesare, ma il suo sequestro e, poi, l’uccisione. L’eccezionalità della vicenda Moro è tutta qui: è il rapimento di un sovrano che si conclude con la sua morte, non un assassinio e basta. Un sequestro di persona che sarebbe equivalso al sequestro di uno Stato a partire dal suo capo (e capo dello Stato in senso proprio Moro lo sarebbe diventato se avesse vissuto ancora qualche mese) dei suoi segreti, delle sue informazioni sulla sicurezza nazionale ed estera. Un rapimento funzionale a distruggerne l’integrità morale, civile e politica, a massacrarne l’immagine in modo che quel disegno di tessitura e di conciliazione non potesse avere continuatori. In tanti avevano l’interesse, sia tra le eterne fazioni delle contrade nostrane sia tra le nazioni amiche, che l’Italia rimanesse lacerata e in balia degli eventi perché negli ultimi trent’anni quel Paese si era eccessivamente allargato, perdendo la guerra ma vincendo la pace, e perciò facendosi troppi nemici.
Soltanto nel marzo 1990 si conobbero i nomi di nove partecipanti all’agguato, canonizzati nel memoriale del brigatista dissociato Valerio Morucci, redatto nel 1986 e inviato riservatamente all’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga.
In base a questo documento, su cui ancora oggi si fonda la verità giudiziaria sull’agguato di via Fani, quel giorno entrarono in azione Franco Bonisoli, arrestato nell’ottobre 1978, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore e Valerio Morucci, catturati nel 1979, Bruno Seghetti, imprigionato nel 1980, Mario Moretti, carcerato nel 1981, Barbara Balzerani, arrestata nel 1985, Alvaro Lojacono, catturato nel 1988, ma poi espatriato in Svizzera, e Alessio Casimirri, tuttora latitante in Nicaragua. In un’intervista dell’ottobre 1993, Morucci si ricordò anche di Rita Algranati, moglie di Casimirri, arrestata nel 2004.
I brigatisti portarono via due delle cinque borse di Moro e, nella concitazione dell’azione, bisogna riconoscere che seppero scegliere con chirurgica precisione: presero infatti la borsa con le medicine e quella, secondo la testimonianza della moglie, con i “documenti riservatissimi”.
L’agguato di via Fani accelerò la formazione del nuovo governo Andreotti e lo stesso giorno i sindacati proclamarono lo sciopero generale. Nelle principali città si tennero manifestazioni in cui le bandiere rosse del Pci e quelle bianche della Dc si confusero con i vessilli dei sindacati. Nella tarda mattinata gli esponenti di Autonomia operaia e del movimento studentesco tennero un’assemblea presso l’Università di Roma: esaltazione, euforia, eccitazione, ammirazione, smarrimento, paura, dubbio e attesa composero l’ampia e contraddittoria gamma sentimentale di questo vasto schieramento giovanile. Un’atmosfera tesa e sfuggente che il trascorrere degli anni e i balsami della memoria e del reducismo avrebbero contribuito a offuscare, fra una serie di inevitabili rimozioni, ambiguità e reticenze generazionali: chi aveva sparato a via Fani non era un marziano, ma un compagno di banco o magari il ricordo del primo bacio. Il giornale Lotta Continua l’indomani intitolò: “Respingiamo il ricatto: né con lo Stato, né con le Br”, facendo riferimento al clima di quest’assemblea. Uno slogan che, se vogliamo dirla tutta, coglieva lo spirito del tempo non soltanto fra quelle fasce studentesche, ma fra ampi strati del mondo operaio e della piccola e media borghesia italiana in cui diffusi umori giustizialisti e antiparlamentari lasciavano mormorare: poveri uomini della scorta, certo, ma Moro era un politico di “Palazzo” e dunque…
A quarant’anni dalla strage di via Fani, il numero di quanti vi parteciparono è incompleto, ma viene da chiedersi se questo oggi sia un dato storico rilevante e non l’ovvietà che caratterizza ogni omicidio politico. Da alcune testimonianze oculari è possibile dedurre che furono presenti all’agguato perlomeno altri due individui, i quali agirono a bordo di una moto Honda, anche se i brigatisti hanno sempre smentito questa presenza, che li costringerebbe ad ammettere le relazioni intercorrenti tra le Br e le altre componenti del cosiddetto “partito armato”. Vale a dire la miriade di sigle, che spuntavano come funghi, composte in buona parte da una minoranza di ex militanti di Potere Operaio e di Lotta continua, i quali, dopo lo scioglimento delle due organizzazioni, invece di ritornare a casa o alle libere professioni dei padri, avevano preferito, sull’onda di ritorno del movimento del 1977, impugnare le pistole e imboccare la strada della lotta armata. E che dire poi di un confronto con il sequestro del magistrato Mario Sossi, realizzato dalle Brigate rosse nel 1974: allora non fu necessario eliminare la scorta, e sappiamo che vennero impiegati almeno 18 uomini, contro i dieci di via Fani. Un altro dato di fatto induce a ritenere che i numeri non tornano: nelle ore successive al sequestro le Brigate rosse fecero beffardamente ritrovare ben tre macchine utilizzate nell’agguato tutte in una stesso posto, la piccola via Licinio Calvo, un’operazione logistica che, oltre a una spiegazione ragionevole ancora mancante, deve avere richiesto la collaborazione di una manovalanza più numerosa.
Anche la dinamica dell’agguato, quella restituita dalle testimonianze dei protagonisti e dalle non meno scivolose perizie balistiche, suggerisce la presenza di altre persone ancora non identificate. Un’azione non semplice perché si trattò di colpire i bersagli in modo selettivo, ossia uccidendo i due occupanti della vettura di Moro, ma lasciando incolume l’ostaggio da prelevare, colui che, secondo un testimone oculare, avrebbe urlato (e si fa fatica a immaginare Moro urlare) “mi lascino andare, cosa vogliono da me”.
Sull’agguato di via Fani si stese prontamente la coltre ideologica della “geometrica potenza di fuoco” di un osservatore interessato come Franco Piperno, ma in realtà le perizie e le stesse testimonianze dei brigatisti dicono altro. In effetti, l’aspetto più paradossale di tutta la storia è proprio questo: tutti, nessuno escluso, hanno raccontato che le loro armi si incepparono nel corso dell’azione. Del resto, la seconda perizia ha stabilito come l’armamento utilizzato dai brigatisti fosse per oltre un terzo composto da veri e propri “residuati bellici” come ammesso dallo stesso Moretti.
L’intervento di un tiratore scelto – per gli esegeti della Commissione Moro, un quinto sparatore da destra non ancora identificato che avrebbe giustiziato con un colpo di grazia il maresciallo Leonardi – potrebbe spiegare perché i brigatisti del gruppo di fuoco scelsero di indossare delle divise di aviere, rendendosi in questo modo più facilmente individuabili così da evitare di essere colpiti dal fuoco amico di un possibile tiro incrociato.
L’ultima commissione Moro ha accertato la presenza di due macchine dalla posizione sospetta: un’Austin così malamente collocata da impedire alla vettura della scorta di Moro di svincolarsi (un particolare notato dallo stesso Morucci nel suo memoriale) e una Mini Cooper parcheggiata davanti alle fioriere dove si nascose il gruppo di fuoco. Le tardive ricerche sui loro proprietari hanno rivelato in entrambi casi dei profili biografici gravitanti nell’area dei servizi segreti nazionali. Un dato di fatto, ma anche le coincidenze possono esserlo.
Le ultime testimonianze avvistarono Moro e i suoi rapitori in piazza Madonna del Cenacolo. Secondo la versione diffusa a rate dai brigatisti (peraltro gravida di evidenti contraddizioni logiche e pratiche) sarebbe stato portato in via Montalcini, nel quartiere della Magliana, da dove non si sarebbe mai mosso nel corso dei 55 giorni più bui della storia della Repubblica. Grazie all’attività della Commissione Moro oggi sappiamo che Gallinari, nell’autunno 1978, trovò rifugio in via Massimi, a poche centinaia di metri da via Fani e da via Licinio Calvo, dove vennero rilasciate le macchine del sequestro. Evidentemente in quello stabile di proprietà dello Ior, abitato da alti prelati, diplomatici, giornalisti, agenti e società di copertura di servizi segreti mediorientali e statunitensi, Gallinari dovette sentirsi sufficientemente al sicuro. Oppure, più banalmente (perché questa al fondo, fatta salva l’eccezionalità della vittima, è una storia banale se si pensa che la maggioranza dei sequestri termina con la morte dell’ostaggio), gli assassini ritornano sempre sul luogo del delitto. (1/continua)