Il Cairo. Mercoledì 31 gennaio. È in corso la cerimonia di avvio della produzione di Zohr, il più grande giacimento di gas del Mediterraneo, a 1.500 metri di profondità. Vale qualcosa come 850 miliardi di metri cubi. L’Egitto, afferma con orgoglio il ra’is al Sisi, potrà affrancarsi dalla dipendenza energetica: “E diventare da importatore ad esportatore di gas naturale”. Zohr l’ha scoperto l’Eni. E infatti, in prima fila, tra le autorità di governo, siede Claudio Descalzi, l’ad della compagnia italiana che ha ottenuto la concessione del 60% di questo maxi giacimento. Una buona notizia per al-Sisi (e per gli italiani). A corroborare l’ottimismo del presidente egiziano, c’è il Pil in risalita. Ci sono indicatori macroeconomici che contraddicono le allarmanti notizie su aumenti dei prezzi, tagli alla spesa pubblica, corruzione dilagante. Propaganda? I dati del ministero del Commercio e dell’Industria prevedono una crescita del 5,3/5,5%. Le riserve in valuta straniera hanno toccato i 38,2 miliardi di dollari, superando quelle pre-rivoluzionarie del 2010 (36 miliardi). Pure l’inflazione, a quota 35% la scorsa estate, dovrebbe calare di 13 punti. Persino il turismo si rianima, dopo la lunga stagione degli attentati e della paura: nei primi dieci mesi del 2017 sono arrivati 7 milioni di visitatori (ma un tempo erano quasi il doppio).
Il Putin del Nilo sfrutta questa vetrina, alla vigilia del voto che il 26 marzo lo riconfermerà presidente. Con il collega del Cremlino ha molto in comune. Per esempio, essere a capo di un sistema che non tollera alcun dissenso. Ed orchestrare elezioni senza avversari. Quelli che volevano candidarsi sono stati asfaltati. O sbattuti in galera. Specie i rivali militari. Ahmed Shafiq, generale dell’Aviazione e premier per 39 giorni nell’immediato post Mubarak (sfidò Mohamed Morsi e perse per 2 punti) non temeva la sfida: “Niente e nessuno mi fermerà”. Poi dopo un misterioso prelevamento dalla sua abitazione di Abu Dhabi, dove prudentemente viveva, cambia idea. Si ritira il 7 gennaio. A Sami Hafer Anan, ex capo di stato maggiore, va peggio. Lo prelevano dall’auto il 23 gennaio, tre giorni dopo aver annunciato la candidatura “per salvare dal declino il Paese”. Vuole correggere le “cattive politiche” condotte dopo la deposizione di Mohammed Morsi nel luglio del 2013. Invita le istituzioni a rifiutarsi di agire in nome di un presidente che fra qualche mese potrebbe non sedere più su quella sedia”. È un candidato pericoloso: può aggregare i nostalgici dell’era Mubarak, le opposizioni. Non avrebbe comunque vinto, ma avrebbe ridimensionato al-Sisi. Risultato: manette ed accusa di sedizione. Cinque giorni prima, il 18 gennaio, era stato arrestato Khaled Fawzy, capo dell’intelligence responsabile degli affari di politica interna ed estera, vicino ad Anan. Regolamento di conti con l’intelligence militare, dalla quale proviene al-Sisi.
Non sono gli unici. Il colonnello Ahmed Konsowa rimedia sei anni di carcere militare. Mohamed Anwar Sadat, nipote del presidente ucciso nel 1981, ha eccellenti relazioni con i servizi segreti, ma sono quelli sbagliati.
L’avvocato Khaled Ali, uno degli eroi di piazza Tahrir, capisce l’antifona: “Lascio il teatrino elettorale”, annuncia il 24 gennaio. Ha subìto fermi, pedinamenti, minacce. Il 2 febbraio, inizio ufficiale della campagna elettorale, lancia il boicottaggio delle urne. Come l’oppositore russo Aleksej Navalnj. Gli arresti, analizzano gli esperti, dimostrano la mancanza di fiducia del presidente uscente. Rivelano che al-Sisi non è un uomo politico, non è cioè a suo agio con la politica e non sa condurre un’adeguata campagna elettorale. Il regime teme gli effetti “palla di neve”. Minare l’apparente unità in seno all’istituzione militare.
In questo Egitto senza regole, ma con tantissime piaghe, 14 ong – egiziane e internazionali – osano rivolgere un appello all’Unione Europea e agli Usa per denunciare le “elezioni farsesche”. Bruxelles e Washington fanno orecchie da mercante. In fondo, un rivale al-Sisi l’ha rimediato. In extremis: 15 minuti prima che l’ufficio elettorale chiuda, il 29 gennaio. È il last candidate Musa Mustafa Musa, poco noto membro di un partito filo governativo.
I documenti sono in regola con i requisiti di legge (modificata da al-Sisi): investitura di 25mila elettori da almeno 15 governatorati diversi, con un minimo di 1.000 sostenitori ciascuno. Musa di firme ne ha 40mila. Si era candidato 10 giorni prima. Chi l’ha aiutato? In Russia si ironizza sulla bella Xsenija Sobchak, innocua rivale di Putin. Musa legittima la finta sfida presidenziale egiziana. Quando si dice affinità elettive. Non è l’unica analogia. Al-Sisi ha guidato l’intelligence militare egiziana. Putin, ex tenente colonnello del Kgb, è stato direttore dell’Fsb, i servizi segreti russi. Per non parlare del metodo anti-opposizione. Nel mirino di entrambi i regimi, ci sono leader politici, giornalisti, associazioni per la difesa dei diritti, attivisti. Nell’Egitto feroce di al-Sisi è vietato protestare contro gli abusi delle forze di sicurezza, o chi manifesta atteggiamenti “anti-presidenziali”. La libertà d’informazione è stata imbavagliata da una legge del 2016 che assegna ad un Consiglio Supremo la prerogativa di revocare licenze, censurare tv, radio, licenziare, multare, arrestare giornalisti e blogger. Non è un Paese per i Navalnij delle Piramidi.
Quanto alle promesse, nel suo piccolo al-Sisi imita Putin e ogni tanto le spara grosse. Quattro anni fa, il ra’is rassicurò gli egiziani: con lui presidente l’Egitto avrebbe goduto di sicurezza e prosperità entro due anni. Fu un plebiscito: prese il 96,91%, una percentuale bulgara. Meglio: cecena. Come quelle che Ramzan Kadyrov garantisce al mentore Vladimir. L’economia si rivelò invece il tallone d’Achille di al-Sisi. La primavera rivoluzionaria si trasformò in inverno. Il piano delle riforme, che liquidava lo Stato-protettore nasseriano, aumentò il malcontento. Come pure i miliardari sogni della spettacolare modernizzazione lanciata nel 2015, mentre i prezzi degli alimenti, salivano, come il costo della vita. Ancora a metà del 2017, la crisi mordeva.
Tutto questo al-Sisi non lo vuole raccontare agli ospiti della cerimonia per il maxi giacimento Zohr. Ha garantito che resterà al potere. Ha accettato l’agenda economica imposta dagli occidentali. Il Maresciallo-presidente, l’ufficiale che si addestrò in Gran Bretagna e Stati Uniti (mica in Russia, come usavano gli ufficiali di Nasser e Sadat), nato il 19 novembre 1953 sotto il segno dello Scorpione (simbolo del male, per gli antichi egizi) in un vecchio quartiere ebraico del Cairo, sa che il comune interesse è la stabilità della regione, a cominciare da quella egiziana. E la salvaguardia del business. Come dimostra la morte di Regeni. Due anni senza verità, senza giustizia. Ma ostacoli, reticenze, bugie, depistaggi. Ricordando il ricercatore torturato e ucciso al Cairo, al-Sisi si rivolge a Descalzi: “Non abbandoneremo questo caso fino a quando non si troveranno i veri criminali. Sa perché volevano danneggiare le relazioni tra Egitto ed Italia? Perché non arrivassimo qui”. Non è vero. L’interscambio con l’Egitto vale 10 miliardi di dollari, le aziende italiane hanno continuato il loro lavoro in Egitto. Come l’Eni. Per rassicurare gli ospiti stranieri, il presidente che vuole un bis-plebiscito aggiunge: “Quello che successe 7 anni fa in Egitto non si ripeterà con me. Non è servito nulla allora, non servirebbe nulla adesso. Forse, non avete ancora capito chi sono”. No, lo sappiamo invece: è la nostra coscienza sporca.