Fa presto il senatore Paolo Romani a declassare il tutto alla “mancata vigilanza” di un padre sulla figlia. A definire “vicenda assurda” la sua condanna per peculato, in modo da tornare in lizza per la poltrona di presidente del Senato a cui Forza Italia continua a candidarlo, nonostante il veto di Luigi Di Maio su chi abbia subìto condanne.
“Mia figlia ha incautamente ma inconsapevolmente usato un dispositivo di cui ammetto di aver dimenticato l’esistenza”, ha sostenuto Romani in un’intervista a il Giornale per spiegare come mai sette anni fa il cellulare che il comune di Monza gli aveva dato in qualità di assessore, veniva in realtà usato da sua figlia. “Ero spesso lontano – afferma Romani, in quel periodo anche ministro del governo Berlusconi – e mia figlia quindicenne lo prese. Io me ne accorsi quando mi arrivò una bolletta da 12 mila euro di traffico dati”. Ma la sentenza della Cassazione dice il contrario, confermando quanto stabilito dalla Corte d’Appello di Milano: fu lo stesso parlamentare a dare la sim del Comune alla figlia che, tra gennaio 2011 e febbraio 2012, ne fece “un utilizzo che non è avvenuto all’insaputa del Romani, ma con il suo pieno consenso”. E la sim fu usata pure negli Stati Uniti.
La vicenda viene a galla nel 2012, quando il Giornale di Monza scopre che al cellulare anziché l’esponente di Forza Italia risponde sua figlia. Ne nasce un’inchiesta della pm di Monza Donata Costa, in seguito alla quale nel 2014 Romani viene condannato con rito abbreviato per peculato a un anno e quattro mesi di reclusione, con pena sospesa. Condanna confermata nel 2016 in appello con una sentenza che l’anno scorso viene annullata dalla Cassazione solo nella parte in cui non ha riconosciuto le attenuanti per la tenuità del fatto. La Corte d’Appello di Milano nei prossimi mesi potrebbe ridurre la pena, ma il peculato resta: “Infondata è la tesi difensiva con cui si sostiene l’inoffensività della condotta posta in essere dall’imputato”, scrivono infatti i giudici della Cassazione, secondo cui Romani ha dato il suo “pieno consenso” all’uso della sim da parte della figlia. E a tal proposito citano le “numerose telefonate” ricevute dal politico da quell’utenza. E richiamano un’altra vicenda: a un certo punto la figlia perde la scheda, ma a presentare la denuncia di smarrimento è Romani, “in quanto formalmente era lui che avrebbe dovuto utilizzarla in modo esclusivo”. L’ex ministro chiede una nuova sim con lo stesso numero e la dà di nuovo alla figlia. Tutte circostanze che per la Cassazione sono “la prova risolutiva della conoscenza da parte del Romani che la sim era usata da lei”.
Romani, che alcuni mesi dopo lo scoppio del caso aveva risarcito il Comune, in questi giorni ha sostenuto anche questo: “La Cassazione, riconoscendo la tenuità del fatto, ha chiesto alla Corte d’Appello di riconsiderare l’eventuale condanna”. La frase, ambigua, lascia intendere che la condanna in futuro potrebbe essere cancellata. Ma le cose, anche qui, non stanno così.
La Cassazione ha chiesto solo che venga motivata di nuovo la sussistenza o meno delle attenuanti. La Corte d’Appello dovrà valutare il contratto della sim che prevedeva un plafond da 180 euro a bimestre oltre il quale ogni spesa sarebbe stata a carico di Romani. Come danno al Comune, in sostanza, potrebbero essere contati non i 12mila euro delle bollette, ma solo gli importi del plafond, a carico del comune ma usati dalla figlia. In ogni caso, la condanna per peculato non la toglierà nessuno.