Il 28 marzo 1978 Rossana Rossanda pubblicò su il manifesto un articolo in cui analizzava il linguaggio usato dai brigatisti nei loro due precedenti comunicati e affermava che le sembrava “di sfogliare l’album di famiglia”: “Chiunque sia stato comunista negli anni 50 riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Brigate rosse. Ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria”.
In un secondo articolo sullo stesso giornale, che sin dal titolo riproponeva l’immagine dell’album di famiglia, sempre la Rossanda si chiedeva con malizioso stupore: “Il Pci si è sentito offeso, chissà perché. I suoi nemici sono stati felici, chissà perché”. La fondatrice de il manifesto si riferiva a un intervento del dirigente del Pci Emanuele Macaluso, il quale si era chiesto quale mai fosse “l’album” conservato dalla Rossanda, certamente, a suo dire, privo della foto di Palmiro Togliatti. Inoltre, Macaluso aveva fatto notare che della stessa opinione della Rossanda erano “quei fogli conservatori come il Giornale di Montanelli che si è affrettato a pubblicare questa sua ‘testimonianza’, ma anche alcuni esponenti della Dc e redattori de il Popolo”, per non parlare della campagna di stampa sullo “stalinismo” in cui si distingueva anche Lotta Continua così da realizzare una convergenza “degli anticomunisti di destra e di sinistra veramente impressionante”.
In effetti, negli anni successivi, l’espressione “album di famiglia” sarebbe diventata quasi proverbiale, conseguendo un vasto, trasversale e duraturo successo presso l’opinione pubblica italiana che cominciò a utilizzarla per accreditare la tesi di una filiazione diretta delle Brigate rosse dal Pci. Una “famiglia” da cui la Rossanda era stata radiata nove anni prima, al termine di una conflittualità interna che aveva lasciato una reciproca scia di incomprensioni e di risentimenti.
In realtà, se si eccettua Prospero Gallinari, da ragazzo militante nei giovani comunisti di Reggio Emilia e allontanato “da sinistra” dal partito in quanto tardivo epigone della tradizione “secchiana”, ostile a Togliatti prima e a Berlinguer poi, la stragrande maggioranza dei componenti brigatisti protagonisti dell’operazione Moro provenivano da diversi filoni e percorsi politici. A partire dal loro capo, Mario Moretti, che alla fine degli anni Sessanta aveva frequentato gli ambienti cattolici di “Gioventù studentesca” e si era iscritto all’Università del Sacro cuore di Milano.
La stragrande maggioranza degli altri (Rita Algranati, Barbara Balzarani, Anna Laura Braghetti, Alessio Casimirri, Adriana Faranda, Alvaro Lojacono, Germano Maccari, Gabriella Mariani, Antonio Marini, Valero Morucci, Bruno Seghetti, Teodoro Spadaccini, Enrico Triaca) aveva militato in Potere operaio e, dopo il suo scioglimento, aveva intrapreso la strada della lotta armata all’interno di una serie di sigle, comitati e collettivi (Fac, Co.co.ce, Tiburtaros, Viva il comunismo) poi confluite nella colonna romana delle Br. Come è noto Potere operaio era sorto sul finire degli anni Sessanta in radicale conflittualità con il Pci e, sin dalle origini, aveva avversato la cultura stalinista e il modello sovietico, cui aveva preferito il marxismo critico dell’autonomia operaia e della “nuova sinistra” radicale statunitense e suggestioni guerrigliere di derivazione guevarista e terzomondista.
Di conseguenza, non sorprende affatto che se entriamo, grazie a un verbale di perquisizione dei carabinieri, in un covo brigatista nel 1978, ad esempio quello milanese di via Monte Nevoso, riaffiori dalla polvere una piccola biblioteca che non può essere ricondotta all’armamentario tipico del lettore iscritto al Pci negli anni di zdanoviana memoria come la Rossanda riusciva a far credere tra il compiacimento dei suoi avversari.
Vi troviamo, infatti, La resistenza eritrea di Piero Gamacchio, Prateria in fiamme, ossia il programma politico dei “Weather Underground” il movimento di ispirazione marxista statunitense; la Lotta armata in Iran di Bizhan Jazani, teorico socialista iraniano morto nel 1975; Tupamors: libertà o morte di Oscar Josi Dueñas Ruiz e Mirna Rugnon de Dueñas oppure La rivoluzione in Italia di Carlo Pisacane, eroe risorgimentale riscoperto nel corso della Resistenza da Giaime Pintor. E ancora: l’edizione einaudiana del Dialoghi di profughi di Bertolt Brecht a cura di Cesare Cases e il classico del femminismo Vassilissa della rivoluzionaria Aleksandra Kollontaj, allontanata dall’Urss da Stalin. In camera, in un comodino di fianco al letto, La lotta di classe in Urss con annotazioni del marxista critico Charles Bettelheim, le Opere scelte di Mao Tse-tung e il feltrinelliano Il sangue dei leoni che pubblicava un lungo discorso del leader congolese Edouard Marcel Sumbu.
Come si vede si tratta di un pacchetto di libri che costituiva le letture tipiche della nuova sinistra extraparlamentare di quel decennio, con influenze anticapitalistiche, trotskiste, maoiste, guevariste, terzomondiste, genericamente rivoluzionarie e libertarie, di certa ispirazione antistalinista e antisovietica.
Ciò nonostante la formula “album di famiglia” ebbe un duplice successo propagandistico che meriterebbe di essere approfondito nel suo sviluppo e radicamento nel dibattito nazionale: alla destra del Pci, perché amplificava una generale ossessione anticomunista (democratica e anti-democratica) e permetteva di riattualizzare lo stereotipo della doppiezza togliattiana; alla sinistra di quel partito, in quanto consentiva di rimuovere, o almeno di stemperare in una vaga aria di famiglia, il nodo centrale – che in quelle ore e in quei mesi era anzitutto di carattere giudiziario e penale – del rapporto di contiguità culturale e generazionale tra il variegato mondo extra-parlamentare, la lotta armata e la pratica della violenza politica all’interno della multiforme costellazione del “Partito armato”.
Un laccio intricato e scivoloso, strettosi sempre più nel corso degli anni anche grazie a una serie di ambiguità, reticenze, omissioni e qualche indulgente connivenza di troppo. In realtà, Zdanov e il Moloch sovietico degli anni Cinquanta c’entravano assai poco e rischiavano di trasformarsi in un comodo alibi purificatore per non guardare in faccia la realtà, la metastasi cresciuta dentro il corpo estremistico e radicale della società italiana.
Anzi, quei percorsi biografici e quei libri sono lì a ricordare che quel manipolo di giovani brigatisti non erano dei marziani scesi sul pianeta terra, ma erano a loro modo, con granitica intransigenza e allucinata coerenza, dentro la cultura, le letture, le pratiche politiche e valoriali del movimento studentesco e operaio italiano dal 1968 in poi, come se le differenti realtà ed esiti dei tanti percorsi esistenziali fossero stati però attraversati da uno stesso sistema di vasi comunicanti.
Questo è il nodo storico che bisogna sciogliere, al di là della nevrosi cerimoniale degli anniversari che ripropone ormai stancamente i soliti dibattiti, se vogliamo per davvero comprendere quegli anni: questo è l’album di famiglia che bisognerebbe avere il coraggio e l’umiltà di sfogliare.
(2/continua)