L’intervista - Sabrina Impacciatore

Sabrina Impacciatore: “Mamma mi voleva col posto fisso. E sul set con Depardieu e Scola… ”

Dagli esordi con Boncompagni, al palco di Sanremo. Giovedì è il compleanno: “Ho la sindrome di Peter Pan”

25 Marzo 2018

Sabrina Impacciatore ha una rara verginità emotiva, il tempo non ha corrotto, alterato o viziato il piacere e il rischio di sentire sulla pelle i sussurri del mondo affettivo e sociale; quindi non c’è troppo da stupirsi se il racconto del suo Sanremo insieme all’amico di sempre, Pierfrancesco Favino, viene arricchito da una lacrima; o se rischia di causare un malore alla sua addetta stampa quando candidamente racconta l’invito ricevuto da Gérard Depardieu a masturbarsi. È senza filtri.

E la sua favola inizia più o meno così: c’era una volta un locale piccolo, stretto e lungo al centro di Roma, tra piazza Navona e Campo de’ Fiori; primissimi anni Novanta, fine dell’edonismo degli Ottanta, ancora vergini del tracollo successivo. Qui dentro un gruppo di ragazzi si ritrovava ogni sera, nottate lunghe, infinite, tra una birra e una jam session; una sigaretta (magari uno spinello) e i sogni di successo. Nel Locale (“L” maiuscola, era il suo nome) l’alfabeto dei clienti comuni recitava: Daniele Silvestri, Max Gazzè, Rocco Papaleo, Alex Britti, Niccolò Fabi, Sergio Cammariere, Pierfrancesco “Picchio” Favino e Sabrina Impacciatore: “Sono cresciuta lì, tutto è partito e nato dentro a quei metri quadri; lì ci nutrivamo e condividevamo”.

Però lei era già conosciuta grazie a Boncompagni…

Un po’. Ma ho iniziato a studiare recitazione quando avevo sedici anni, e la strada era chiara. Almeno per me. Poi per soddisfare le richieste dei miei genitori ho conseguito una laurea parauniversitaria in comunicazione di massa.

I suoi non la sostenevano nel sogno d’attrice?

Zero. Di nascosto prendevo lezioni da uno statunitense poi diventato un guru, una sorta di filosofo pazzo, mentre mamma era disperata, desiderava un “lavoro serio”, e lo ripeteva ogni mattina dopo avermi svegliata con il giornale sul letto, aperto sulla pagina degli annunci economici.

A scuola studiava?

Andavo molto bene.

Secchiona.

No, mai! Direi: furba.

Copiava o passava?

Passavo. Copiare non mi era possibile, sono troppo orgogliosa.

Occupava?

Ero la regina dell’occupazione, e manifestavo pure, però non sono mai stata una giovane impegnata, l’impegno vero, la presa di coscienza è arrivato qualche anno fa; era solo una scusa per organizzare un po’ di casino…

E rimorchiare…

Mai avuto problemi da quel punto di vista (arriva il thè).

Vuole dei pasticcini?

No, grazie, ho da poco finito di mangiare un piatto di rigatoni con la pajata e un altro con la coda alla vaccinara.

Degli assaggi.

Porzioni intere, non sapevo quale scegliere, quindi li ho spolverati entrambi.

Cucina?

Poco, ma come una che vuole godere: mangio quello che desidero, sempre, senza limiti.

Brucia tutto.

Forse grazie all’ansia da palcoscenico e in questo periodo arrivo da tre anni di tournée con La Venere in pelliccia e non c’è stata una sera nella quale non ho maledetto il giorno in cui ho deciso di lavorare in teatro.

Una volta aperto il sipario, arriva la gioia.

La felicità la sento nell’interpretare, nell’entrare dentro al personaggio, e non uso il termine recitare perché recitare sottintende un principio di finzione, mentre la questione è differente, è più seria.

Fino che punto?

Quando vado in scena non penso al delirio del palco, ma alla bellezza di entrare nei panni di un personaggio ed evadere da me per una sera in più.

Poi ne esce facilmente?

No, lo porto a casa e spesso ne pago le conseguenze: quando lo vivi veramente non te ne puoi liberare, si impossessa dei tuoi pensieri, degli impulsi, dei tuoi modi di reagire.

Un esempio?

Per il monologo di Natalia Ginzburg, dedicato a una donna che da sana di mente diventa pazza e uccide il suo uomo, sono diventata folle.

Metaforicamente?

Magari! Mi sono isolata da tutti, astratta dalla vita privata: ho vissuto solo per il personaggio, ho perso sei chili e un giorno davanti allo specchio del camerino ho scoperto un ciuffo di capelli bianchi. Gli unici della mia vita.

E lì…

Una sera mi bussa al camerino una psicoterapeuta, e mi dice: “Quello che ho visto non lo dimenticherò mai, è stata di una potenza assoluta, ma si deve proteggere perché lei è a rischio, sta oltrepassando i limiti”. Mi sono spaventata.

Finita la tournée?

Mi hanno chiesto di continuare, ho rifiutato. Forse non è chiaro: il mio era un monologo di 55 minuti e ogni sera piangevo per 55 minuti, perdevo liquidi, mi consumavo.

Come ne è uscita?

Salvata dal film Amiche da morire, un ruolo iper leggero, e ho scacciato l’esaurimento.

Durante “Venere in pelliccia” desiderava rapporti sessuali?

Per fortuna ero sola, niente fidanzato.

Lei è da poco reduce dagli applausi di Sanremo.

E in questo periodo di grande successo, mi sono sorpresa: più era forte il clamore e più mi sentivo vulnerabile, come se fossi senza pelle; sono stata ferita da situazioni che normalmente non mi avrebbero sfiorato.

Cosa, in particolare?

Comprendere un dato: chi ti vuole veramente bene non si appalesa nel momento del bisogno, ma in quello del successo. Dove non c’è invidia. Ma felicità.

Ha letto le critiche e i complimenti durante Sanremo?

Impossibile, ero troppo agitata, andavo a letto alle sette del mattino, mi svegliavo alle due del pomeriggio e rimbambita, poi alle sette arrivava una telefonata dall’organizzazione che mi comunicava il mio intervento all’Ariston; arrivavo al Festival senza sapere il ruolo. Improvvisavo.

Si è divertita?

Sì, però me ne sono accorta solo in questi giorni, avevo troppa paura.

Il terribile Sanremo.

È un frullatore di umani, dove sei dentro a una giostra importantissima, esaltante, ma deve restare un’esperienza di una settimana, altrimenti non si sopravvive.

Favino le ha dato sicurezza?

Avere Picchio sul palco mi scaldava metà del cuore, all’altra metà ci ha pensato Baglioni, una rivelazione al di sopra di ogni aspettativa.

Non delusa…

Ho passato infanzia e adolescenza a cantare le sue canzoni, e temevo di incontrare il mito e restarci male; invece ha superato ogni idea, ogni possibilità di calore: mi ha fatto sentire accolta e capita, e non mi capita quasi mai.

Favino era agitato?

La prima sera stava come un pazzo, poi ho percepito il momento esatto nel quale è scattato il click, si è lasciato andare e ha iniziato a volare. Per me… (si commuove) è stata una gioia incredibile.

Lui è un suo punto di riferimento?

Lo conosco da decenni e lo considero vicino a me come approccio alla vita, anche se lui è più cerebrale, io istintiva; però quando gli hanno proposto Sanremo, sono stata una delle primissime alle quali ha chiesto un consiglio: era dilaniato dal dubbio. Così gli ho detto: fidati, devi andare.

Non parliamo di uno sconosciuto…

Certo, ma lui ha sempre avuto il bisogno di affermare la sua parte da attore impegnato, mentre conosco il suo aspetto giocoso, per questo gli dicevo: “Hai un dono e lo devi condividere”. E giù a insistere.

Se ripensa a voi due giovani, dentro al Locale?

All’epoca avevo una cotta occulta per lui.

Ecco il motivo delle lacrime…

Macché! Sono proprio così: l’altra sera mi sono commossa davanti alla televisione dopo aver visto Claudia (Gerini) ricevere il David di Donatello; partecipo alla felicità delle persone che amo.

Insomma, se ripensa a voi due da ragazzi…

Sento la tenerezza, lo guardavo e vedevo il successo, lo percepivo come un attore famoso.

Mentre gli altri del gruppo?

Alex Britti passava le nottate a suonare pezzi blues, e il suo virtuosismo si avvertiva in maniera netta.

Sergio Cammariere?

All’epoca si chiamava Stress, il gruppo la Stress band e lo seguivo ovunque.

Gli altri?

Con Valerio Mastandrea, Marco Giallini e Rolando Ravello abbiamo realizzato uno dei primi spettacoli della nostra vita, prodotto da Maurizio Costanzo: Forever Blues; noi pieni di sogni, la pizza dopo lo rappresentazione, palchi piccoli e un pubblico ristretto.

Di quel gruppo, chi l’ha stupita maggiormente?

Edoardo Leo, perché ci ha messo più tempo degli altri ed era quello che lavorava più nell’ombra, era chiuso in una sorta di bozzolo.

Anche lui era a Sanremo…

Infatti sono stata travolta dall’aver condiviso un momento fondamentale insieme ai miei compagni di giochi; e poi a Rolando Ravello dovrò sempre dire grazie per avermi presentato Ettore Scola il quale mi ha adottata all’istante e prodotto due spettacoli teatrali scritti dalla figlia.

Con Scola ha girato “Concorrenza sleale”…

Ed è stato il più grande signore del cinema italiano, arrivava sul set in giacca e cravatta, un lord; l’atmosfera era magica, rigorosa, silenziosa, e lui sempre di buon umore.

Il primo giorno di set…

Dovevo girare con Gérard Depardieu, dall’agitazione la sera prima mi imbottisco di Lexotan (ansiolitico); arrivo sul set completamente rallentata, ne parlo con Gérard, e lui si mostra docile e accogliente.

Dépardieu dolce e accogliente?

All’inizio, poi con una flemma incredibile mi fissa negli occhi e aggiunge: “Sabrinà, perché hai preso la pillola per dormire? La prossima volta sdraiati, apri le cosce, pensa a me e toccati: del Lexotan non avrai più bisogno”.

E lei?

Divento viola e corro da Ettore: da quel momento in poi Scola ha passato il tempo del set a proteggermi, anche perché Depardieu si era preso una cotta e mi tormentava.

Perseverante.

Devo ammettere che non ero insensibile di fronte a quel fascino animalesco e la notte me lo sognavo pure (Interviene la sua addetta stampa: “Lei è così, non ha freni”).

Non ha realmente freni?

Una volta (sempre l’addetta stampa) ha bloccato una mia intervista: “Tu ora stai un momento zitta”, e rivolta al giornalista: “Non è in sè, sta parlando così perché è posseduta dal personaggio de La Venere in pelliccia.

Era ancora sul “palco”…

Come ho detto, i personaggi non me li scrollo: in quell’occasione rispondevo da Venere. Guardi (mostra le unghie lunghe), non sono mie, ma non voglio toglierle, sono parte di Venere: l’addio deve avvenire con modi graduali.

Lei è un sogno erotico…

La prima volta che me l’hanno detto sono rimasta sconvolta.

Chi è stato?

Avevo 18 anni e Gianni Boncompagni sentenziò: “Hai una qualità molto rara ed eterna: sei comica e charmant, con un sex appeal forte, mentre di solito le comiche sono asessuate. Sarà la tua fortuna”.

Come ha vissuto i primi accenni di fama?

Con Claudia ai tempi di Domenica in eravamo obbligate ad andare in giro con le guardie del corpo; poi al Palatino (studi di Non è la Rai) ogni giorno trovavamo un migliaio di ragazzi che ci saltavano addosso.

Cosa la fa soffrire della popolarità?

I selfie: li detesto. Preferisco un abbraccio. Le foto mi fanno sentire stupida, il dover essere sempre in ordine, poi ho la sensazione che ogni scatto mi rubi un pezzo di anima.

Renato Zero afferma un concetto simile…

Infatti sono una sorcina… Vivo i selfie come un trofeo e io un animale da zoo: non c’è amore, ma voglia di esibire.

I suoi genitori come hanno vissuto quegli anni?

Terrorizzati.

E con Boncompagni?

Mia madre era talmente preoccupata che ci provasse da non volermi mandare a casa sua per lavoro.

E poi?

Ha ceduto, a un patto: dovevo chiamarla ogni quindici minuti, e così è andata, fino a quando Gianni, stupito, le ha detto: “Signora, questo è il mio numero, telefoni quando vuole”.

Tra pochi giorni è il suo compleanno.

Non so come affrontarlo con questa sindrome da Peter Pan che mi ritrovo.

Non è contenta?

Non so cosa provo, in questi giorni mi interrogo, cerco di capire. Per me i compleanni dovrebbero arrivare ogni dieci-quindici anni: uno si deve preparare; è come attraversare un’altra porta quando senti di non aver ancora completato la strada di quella precedente…

 

Ti potrebbero interessare

I commenti a questo articolo sono attualmente chiusi.