Cacciatori di haters, se le cose non cambieranno, potete stare tranquilli. Difficilmente conoscerete chi vi insulta su Facebook, qualora si tratti di anonimi. E, anche se denunciate, le cose potrebbero non andare meglio. Nel caso dei reati di diffamazione, per sapere infatti chi si nasconde dietro pseudonimo, celando la propria identità, i magistrati italiani sono costretti a fare rogatorie, chiedendo i dati alle autorità americane. Che, come pure il social network, non rispondono quasi mai. A danno delle indagini e dei diffamati. Ed è questo un tema particolarmente importante oggi, nel momento in cui si scopre che la società Cambridge Analityca ha avuto accesso ai dati di 50 milioni di utenti Facebook, violando le regole sulla privacy.
Per quanto riguarda la capitale, il diniego a fornire informazioni ai pubblici ministeri è scritto in una nota inviata dal Dipartimento giustizia americana, tramite il magistrato di collegamento Usa, a dicembre 2016 alla Procura di Roma. “Le cose da allora non sono cambiate”, dice un investigatore. In due pagine, si spiega che in molti Stati americani la diffamazione non è reato. Le affermazioni scritte sul social network, viene sottolineato, per quanto diffamanti, sono coperte dal principio di libertà di opinione. Per di più, nel caso dei personaggi pubblici, questi devono avere maggiore sopportazione in virtù della loro posizione. Insomma, l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, per anni bersaglio di insulti e minacce, dovrebbe, in base a questo principio, rinunciare ad avere giustizia. Nella nota inviata ai pm di Roma si invitano i magistrati anche ad evitare future rogatorie per conoscere l’identità di profili fake: è scritto che richieste di questo genere vengono regolarmente respinte dal dipartimento di giustizia Usa ed è altrettanto inutile rivolgersi direttamente a Facebook – con sede a Menlo Park, nello Stato della California – perché neanche loro, per quanto riguarda la diffamazione, sono soliti rispondere.
Per altri reati è diverso: nel caso di terrorismo o reati informatici, per fare qualche esempio, i magistrati collaborano con i responsabili del social network, che in questi casi rispondono, spesso dando loro stessi il via alle indagini.
A Roma, il procuratore aggiunto che coordina i reati informatici è Angelantonio Racanelli, il quale con il suo pool di pm si ritrova sulla scrivania parecchie denunce per diffamazione aggravata: come stabilito in molte sentenze della Cassazione, infatti, nel caso di insulti su Facebook, si contesta l’aggravante connessa al mezzo che può raggiungere un’ampia platea di persone. Così si è costretti a chiudere questi fascicoli con l’archiviazione proprio perché le rogatorie restano senza risposta e non si riesce ad identificare gli haters con altri mezzi. Ci sono anche altri casi in cui le indagini finiscono in un nulla di fatto. Come l’inchiesta sui vigili romani assenti a Capodanno del 2015. Ben 767 agenti quell’anno sparirono dai turni, con svariate giustificazioni: per esempio, in 63 dovevano andare a donare il sangue, 571 caddero malati. Per una ventina di vigili, i pm capitolini Stefano Rocco Fava e Nicola Maiorano sospettavano che si fossero organizzati su un gruppo Facebook chiuso. Ma è rimasta inevasa la rogatoria in cui si chiedeva di avere accesso ai messaggi: l’inchiesta è stata archiviata. Ma torniamo alla diffamazione. Oltre ai volti noti di tv e spettacolo (uno degli ultimi casi riguarda Mikaela Neaze Silva, velina di Striscia la notizia insultata sul web dopo che le è stato attribuito un volgare audio da lei mai registrato), è la politica spesso a raccogliere odio, volgarità e minacce.
L’azienda D-Link, attraverso la campagna #ConnettitiResponsabilmente, fornisce alcuni dati, analizzando quasi 2 milioni di contenuti raccolti dall’inizio dell’anno fra tweet e commenti legati alle elezioni. “Il 38% dei messaggi (circa 750mila) – è scritto sul sito – è connotato da negatività e 135mila contengono volgarità o insulti”. In 15mila casi si augura la morte. Infine, “solo l’11% dei contenuti è positivo”. Il leader di partito maggiormente preso di mira sul web, secondo la ricerca, è Silvio Berlusconi “destinatario del 23% degli insulti personali online”, seguito da Matteo Salvini e Matteo Renzi, entrambi al 21%. Analizzando l’astio verso i partiti, invece, la prospettiva cambia: “L’accanimento – dice D-Link – è indirizzato al Pd (39%) e al M5s (34%). Poi Lega (12%), Casapound (5%) e Forza Italia 4%”. Gli haters poco coraggiosi, che restano anonimi, se in futuro non ci saranno cambiamenti, non hanno nulla da temere. È il web, bellezza!