Ognuno di noi ha un suo alter ego virtuale. Nel migliore dei casi è un numero di cui gli inserzionisti e le piattaforme conoscono età, sesso, preferenze commerciali, culturali, sessuali, abitudini, localizzazione e spostamenti. Scoprire come è fatto è abbastanza semplice. Spulciando gli archivi e le condizioni d’uso, per esempio, il profilo di chi scrive è molto dettagliato: tra i 24 e i 35 anni, donna, con centinaia e ben determinate preferenze, che ha visitato almeno 159 posti, che abita in uno e che lavora in un altro, che si sposta a piedi, che fa poco sport, che ama ascoltare questa determinata musica e vedere un certo tipo di serie tv a una certa ora.
Google, basta una email
Ti conosce meglio di una segretaria
Il viaggio inizia nell’archivio di Google. Chi usa una email di Gmail, il servizio di posta elettronica, ha inevitabilmente attivato un account che dà accesso a decine di altri servizi, dall’archivio di foto e documenti. Le informazioni sono nella pagina “Account personale” a cui si accede dai quadratini in alto a destra dello schermo. Nella parte sulla sicurezza scopro che Google conosce con quali dispositivi mi sono collegata all’account e quando: marchio, modello, quelli ancora associati. Il fine è aiutare l’utente a tenere sotto controllo gli accessi, scoprire e impedire movimenti non autorizzati.
Dove, come, quando e finanche perché
La vera sorpresa, però, è nel menu “Gestisci le tue attività”. Qui (io che ho attive tutte le opzioni ma non ricordo il momento in cui ho dato l’approvazione) scopro un archivio sulle mie abitudini. Nella sezione “Personalizzazione degli annunci” c’è l’elenco dei miei interessi, catalogati tenendo traccia di tutte le ricerche e della navigazione online con il browser Google Chrome e le app collegate a Google. Sono settanta: “Cibi e bevande”, “Abbigliamento casual”, “Finanza aziendale”, “Cani”. Posso cancellarli o aggiungerne di nuovi. Google mi avvisa che la mia profilazione è costante, si aggiorna anche in base ai video che vedo su Youtube per fare in modo che i risultati delle mie ricerche siano migliori, cuciti addosso alle mie esigenze, così come gli annunci pubblicitari che vedo. Scopro di avere attiva anche la cronologia delle posizioni: ogni volta che il Gps del telefono è acceso, Google incamera posizioni e spostamenti. Lo fa da anni, i viaggi e i luoghi in cui sono stata (almeno 159 dice Google) sono puntini rossi sulla mappa. Dettagliati: orario, tempo di spostamento, il mezzo, la velocità. E poi il calendario, gli appuntamenti segnati, i biglietti aerei e dei treni, i contatti, le foto scattate con annesso luogo e orario. Google sa tutto, gli ho dato il permesso.
A cosa servono e la via d’uscita
Ma cosa se ne fa Google di questi dati? Perfeziona il servizio e ‘nutre’ gli inserzionisti, una potenziale platea di due milioni tra siti e collaboratori. “Google – si legge nelle pagine sulla privacy – è una delle oltre cento reti pubblicitarie online. Tali reti svolgono due attività principali: Pubblicano annunci nei siti web e nelle app dei publisher, aiutandoli a mantenere i propri contenuti gratuiti. Consentono agli inserzionisti, dalle grandi aziende all’idraulico locale, di creare annunci che possano essere pubblicati su tali siti web e app”. Per fortuna, però, nell’Account Personale ci sono le opzioni per cancellare e disattivare i dati e la loro raccolta.
Amazon sa cosa vuoi
Il personal shopper che non ti dice cos’ha
Ogni giorno, i “Consigli per gli acquisti di Amazon”, mi ricordano che ho cercato ma poi non ho comprato il pacco da un chilo di caramelle per il dispenser che ho sulla scrivania. Poi mi propongono di ampliare il mio parco giochi da tavolo con l’ultima offerta e la mia libreria con l’ultimo saggio sui temi che ho ricercato. “I dati – spiega Amazon – servono per gestire gli ordini, fornire prodotti e servizi, elaborare pagamenti, comunicare con l’utente, aggiornare i registri e, in genere, gestire l’account, mostrare contenuti e consigliare prodotti e servizi che potrebbero essere di interesse”. Ma quali dati prendono? Se si prova a cliccare sul link “Clicca qui per vedere gli esempi dei dati che usiamo” contenuto nell’informativa sulla privacy, il sito mi rispedisce sulla pagina che sto già guardando.
Per sé e per gli altri, tra cookies e aut-aut
Amazon conserva ogni dato che viene inserito nel sito o che l’utente fornisce in un mal specificato “qualsiasi altro modo”. “Puoi scegliere di non fornire alcuni dati – intima – ma in tal caso potresti non essere in grado di usufruire di parte dei nostri servizi”. La piattaforma segue la navigazione dell’utente con i cookie e ottiene alcuni dati quando si accede al sito o ad annunci pubblicitari e a contenuti presentati con riferimento ad Amazon.it su altri siti. E se è stata abilitata la localizzazione per le app di Amazon o i suoi dispositivi, Amazon potrebbe prendersi pure le informazioni sulla posizione geografica. “Potremmo utilizzare queste informazioni per fornirti servizi basati sulla localizzazione come risultati della ricerca e altro contenuto personalizzato”. Amazon sostiene di poter ricevere i dati personali “da parte di altre fonti ”. Anche in questo caso, il link che dovrebbe mostrare gli esempi delle informazioni che riceve non funziona. La piattaforma spiega poi di non cedere i suoi dati ad altri, però poi aggiunge delle eccezioni: le società poste sotto il suo controllo ma anche “aziende terze su cui non abbiamo controllo”. Amazon però ci rassicura: “Sarai in grado di riconoscere quando un terzo è coinvolto nelle nostre operazioni commerciali, e su queste operazioni noi condividiamo col terzo informazioni sui clienti”. Amazon lo dice chiaro: la maggior parte dei dati personali li ho forniti con le ricerche, la registrazione, l’iscrizione a Prime, gli ordini. Scopro però che in automatico assimila molto di più: l’indirizzo Ip del mio computer, le informazioni relative al computer che uso, quelle sulla mia connessione internet e anche tipo e versione di browser. Finanche il sistema operativo installato sul pc. Ah, e ovviamente “qualsiasi numero di telefono utilizzato per contattare il nostro servizio clienti”.
Facebook d’archivio
Esposizione social, monitoraggio al dettaglio
L’archivio di Facebook arriva via email nel giro di qualche ora da quando lo richiedo. C’è registrato tutto. Le pagine a cui ho messo mi piace, a cui l’ho tolto, le amicizie, le foto, i messaggi, la cronologia di tutte le volte che ho cambiato nome (per un periodo sono stata su Facebook come “Giuseppa Parini”). Uno dei documenti raccoglie i contatti telefonici e email presenti sugli smartphone su cui ho scaricato le applicazioni del social network. Evidentemente quando ho autorizzato l’accesso ai miei contatti, Facebook ha iniziato ad accumulare tutti i metadati di telefonate e messaggi. Chi, come, quando, la durata delle comunicazioni e anche la frequenza con cui queste avvengono. Il permesso l’ho probabilmente dato quando Facebook mi ha chiesto di riunire in un unico posto sms e Messenger, il suo servizio di messaggistica. Oppure quando mi ha chiesto di accedere ai contatti per connettermi meglio con i miei amici. Ora, il social ha introdotto nuovi strumenti per permettermi di controllare meglio la mia privacy. Quello che preferisco? La possibilità di richiedere la cancellazione delle mie informazioni dai loro server.
Il suggeritore seriale, dai prodotti agli amici
Non è chiaro a cosa servano questi tabulati: probabilmente in base alla frequenza con cui si è in contatto con una persona, Facebook capisce se consigliare o meno di stringere amicizia. Si spiegherebbe come mai, nonostante non ritenga alcune persone amiche ma le senta spesso per lavoro, esse compaiono spesso tra i suggerimenti d’amicizia del social. Ma questo Facebook non lo sa. Per aiutare gli inserzionisti a personalizzare la pubblicità e a far in modo di rendere gli annunci più efficaci, invece, il social assegna agli utenti delle categorie di interesse (come fa Google). Rispetto a Google, però, sono molto più dettagliate e numerose. La lista delle categorie che mi sono state attribuite è lunghissima. Come Google, il social sa su quali inserzioni ho cliccato e quando nonché quali inserzionisti hanno le mie informazioni di contatto. Per fortuna non sono molti, ma sono di peso: Airbnb, Spotify, Blablacar, Uber, Privalia.
Netflix vede cosa vedi
E ti prende anche in giro sui social
È il 12 dicembre 2017: il social media manager di Netflx pubblica un tweet: “Alle 53 persone che hanno guardato Un principe a Natale ogni giorno negli ultimi 18 giorni: chi vi ha fatto del male?”. Le risposte sono esilaranti, gli utenti si divertono. “Volevo solo assicurarmi che steste bene”, twitta ancora Netflix. Un utente chiede: “Netflix, quante volte ho guardato Friends da quando lo hai caricato?”. La risposta: “Non abbastanza”. Netflix, che è un servizio a pagamento, non ha grande interesse a scoprire le preferenze degli utenti per cederle agli inserzionisti. Alla piattaforma interessa prima di tutto fornire un palinsesto su misura al suo cliente per fargli vedere film e serie di suo gusto, contenuti che lo invoglino a continuare a pagare. I principali dati che raccoglie sono infatti quelli “di utilizzo”. Con un rapido viaggio nelle impostazioni dell’account mi accorgo per esempio di avere attivate (e di poter disattivare) opzioni a cui non ricordavo di aver mai acconsentito, come la partecipazione ai test sulle modifiche della piattaforma prima che queste diventino effettive per tutti gli utenti. Netflix informa poi che potrebbe usare il mio numero di telefono per fornirmi informazioni e comunicazioni. Scopro che ha anche la lista di tutte le mie attività di streaming. Sa quando l’ho usato, da dove, a che ora e su quale dispositivo. Ha memorizzato la cronologia esatta di cosa ho guardato e delle ricerche. Raccoglie dati sul dispositivo, le sue specifiche tecniche, le caratteristiche della connessione. Ma anche informazioni provenienti da altre fonti: “Potremo – si legge sul sito – integrare le informazioni che precedono con informazioni ottenute da altre fonti, comprese le informazioni ottenute da fornitori di dati sia online sia offline. Tali informazioni supplementari potranno comprendere dati demografici, dati basati sugli interessi e dati sul comportamento di navigazione in Internet”. Obiettivo: consigliare, tra le centinaia di titoli nel catalogo, quelli che più potrebbero interessare l’utente.
Twitteriadi
Il social network delle notizie sponsor
Twitter li chiama “Interessi”: secondo lui ne ho circa 87 e sono attribuibili soprattutto a contenuti editoriali. D’altronde gli annunci pubblicitari qui appaiono sotto forma di tweet. L’obiettivo è fidelizzare, meglio se con titoli che sembrino annunciare un articolo. Il social network mi dice che posso modificarli se non dovessero corrispondere alla realtà, aggiungerli o eliminarli. Come gli altri, non lascia intimità ai miei dispositivi: sa da quali mi sono collegata, le informazioni su tutti i recenti accessi. Nella sezione “I tuoi dati di Twitter” a cui si accede dal profilo e da “Impostazioni” scopro altre informazioni interessanti. Ho attive (e anche in questo caso non ricordo quando abbia dato l’ok) tutte le opzioni di personalizzazione degli annunci pubblicitari: mi compaiono in base agli interessi (e Twitter specifica che sono utilizzati anche i dati che i partner pubblicitari esterni decidano di condividere con Twitter), in base al dispositivo usato o alla posizione. Ci sono pure i numeri: “Attualmente fai parte di 646 segmenti di pubblico di 303 inserzionisti” mi dice Twitter. Richiedo e ricevo l’elenco di tutti gli inserzionisti a Twitter ritiene potrei interessare e a cui quindi dovrebbe convenire indirizzarmi i loro contenuti. Mi sento contemporaneamente un cliente e un espositore. Anche in questo caso, per fortuna, posso disattivare tutte le opzioni.
App a casaccio
Vanità e funzionalità non sono proprio gratis
Analizzate le dinamiche dei big del web, mi viene in mente di guardare cosa prevede la privacy delle ultime due app gratuite che ho scaricato sul mio smartphone Android. Una migliora i selfie, una conta le calorie, i passi e monitora la mia attività fisica. La prima riferisce che usa strumenti per tracciare la navigazione e farmi vedere annunci personalizzati e che potrebbe prendere informazioni su di me da Facebook, assicurandomi di non condividerle con altri. La seconda mi dice che userà le mie informazioni per le pubblicità e gli annunci, affidate a un’azienda che cura gli interessi anche di altri (come Amazon). Tutto tranquillo, a parte la postilla che mi avvisa: “Le impostazioni sulla privacy potrebbero cambiare: leggile di frequente”. È chiaro che in caso non mi avviserebbero.